martedì 21 ottobre 2008

Università sull'orlo del crac

Di Vito di Lernia per ragionpolitica.it

In un momento in cui l'economia mondiale trema e le borse sono in caduta libera il crac finanziario di un ateneo rischia di passare inosservato o erroneamente riconducibile alla crisi finanziaria globale. Invece si scopre che, al fianco di università che impiegano in maniera oculata il finanziamento statale, ve ne sono altre che spendono per il personale una quota superiore al 100% dello stanziamento. E' quanto sta accadendo in una università storica come quella di Siena, che utilizza il 104% del finanziamento per il pagamento degli stipendi con il risultato di una vera e propria crisi finanziaria che potrebbe presto coinvolgere altri atenei quali l'università Federico II di Napoli, che spende il 101% e a seguire quelli di Bari, Cassino, Firenze, l' Orientale di Napoli, Pisa e Trieste che «si limitano» a spendere il 90% del fondo di finanziamento.

Un andamento disastroso in gran parte causato dalla crescita vertiginosa, negli ultimi venti anni, dei corsi di laurea, il cui numero, superiore a 5000, è di gran lunga più alto rispetto alla media europea. Si tratta di un incremento finalizzato in parte all'obiettivo di ampliare l'offerta formativa e quindi di incentivare nuove immatricolazioni, in parte a quello di regalare cattedre, scambiare favori, sistemare docenti. Difficile non condividere dubbi sui discutibili criteri di gestione cui ci hanno assuefatto molte università, fondati su anomala distribuzione del personale, assunzioni di massa per ragioni politico-sindacali, comportamenti corporativi e clientelari che hanno dato vita ad un modello tutto italiano di governance che sta per fare implodere lo stesso sistema che lo ha generato. Un apparato non sostenibile da un punto di vista economico né etico che si è gradualmente costruito a partire dagli anni della riforma Berlinguer, la cui applicazione ha favorito un effetto di moltiplicazione di spesa e di posti, sia per la docenza che per il personale amministrativo. «Con l'autonomia le università italiane hanno investito troppo nel personale» ha dichiarato Alessandro Mazzucco, rettore dell'università di Verona e membro della giunta della Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (CRUI), sottolineando che «se le cose continueranno a seguire questa direzione senza interventi, come riduzione dei corsi di laurea, delle sedi decentrate e blocco del turnover, nel 2010 tutte e 66 le università statali italiane saranno in emergenza».

L'Università italiana insomma disperde risorse preziose e le utilizza in modo inefficiente. Prendiamo il caso emblematico di Siena, dove negli ultimi cinque anni ad un calo del 15% del numero di studenti (da 21366 a 18051 unità) ha fatto da contraltare il potenziamento del personale docente da 988 a 1243 unità e di quello non docente da 1080 a 1297. Non solo quindi una crescita esponenziale della spesa, ma soprattutto una sperequazione determinata dal progressivo distacco tra contributi governativi, in parte legati proprio al numero degli iscritti e costo del personale. Le cifre esposte dal rettore Silvano Focardi sono scioccanti: l'ateneo ha oltre 40 milioni di euro di debito con l'Inpdap per mancati versamenti previdenziali, cui si aggiunge un errore nel consuntivo del 2007 per 15 milioni e altri 21 milioni di debito per il mancato pagamento dell'Irap fra il 2007 e il 2008. E' la stessa università che, pur dotata di un ingente patrimonio immobiliare, nel 2006 ha rinnovato il contratto di affitto di tre appartamenti di Palazzo Chigi Zondadari, una sede storica che si affaccia su Piazza del Campo al «modico» costo di 156.000 euro l'anno per ospitare personalità di prestigio al Palio della città. Ma le notizie degli ultimi giorni ci dicono che il mondo universitario più che all'autocritica appare interessato a cavalcare l'onda di protesta che ha messo al centro dello scontro politico la scuola e l'università. A Siena gli studenti hanno occupato il rettorato per contestare il blocco del turn over del personale previsto dalla legge 133 che stabilisce il limite massimo di nuove assunzioni a uno su dieci per il 2009 e uno su cinque per il 2010 a fronte dei pensionamenti, oltre che la possibilità per le università di trasformarsi in fondazioni private.

Ad una crisi che non è solo finanziaria si rapporta il declino drammatico dell'università italiana. Con tanto di certificazione dell'assenza di atenei italiani dalla classifica «Top 100» del Times che mette a confronto le migliori università del mondo sulla base di un calcolo che tiene conto di qualità della ricerca, tasso di occupazione dei laureati e profilo internazionale dell'ateneo, visto che la prima università italiana è quella di Bologna al il 192° posto della graduatoria. Avremmo voluto ascoltare richiami al miglioramento della qualità del sistema universitario e della competitività nel contesto internazionale, alla necessità di riformare le regole di governance dell'università superando le attuali modalità consociative che prevedono che chi governa viene eletto da coloro che sono stati o saranno controllati e valutati, di pervenire ad un finanziamento rivolto verso lo studente piuttosto che verso l'istituzione, all'importanza di liberalizzare il rapporto di lavoro del personale docente e non docente, differenziando carriere e retribuzioni e prevedendo la possibilità di licenziamento per scarsa produttività, di valutare il costo delle sedi e del personale non solo in rapporto al numero degli studenti, ma anche alla qualità della ricerca, alla possibilità di chiudere atenei e facoltà meno produttive o che vendono pezzi di carta che si chiamano lauree, diplomi, master, dottorati. Niente di tutto questo. Stiamo invece assistendo alle abituali geremiadi invocate dalla sinistra: l'uguaglianza, l'università pubblica, la fuga dei cervelli, il rischio di privatizzazione delle università.

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