domenica 22 novembre 2009

Occupazioni a scuola, ci vuole più responsabilità

Il re è nudo. Ecco la riflessione venuta spontanea leggendo la presa di posizione dei presidi romani che hanno messo nero su bianco quello che tutti sapevano da anni e nessuno aveva il coraggio di dire: le occupazioni delle scuole secondarie sono una ritualità vuota, una esperienza diseducativa che si fa per stanca ripetizione di un passato che nessuno ricorda e per non perdere l’usucapione di uno spazio di vacanza aggiuntivo e fuori dalle regole. Per tanti versi questa scuola è lo specchio della società in cu viviamo: ripetitiva dei suoi riti e miti sociali, che però svuota di ogni significato. Si può essere o non essere d’accordo con quello che rappresentò la rivolta giovanile del Sessantotto, ma questi cascami non c’entrano nulla con quella esperienza. Allora era il fenomeno europeo (anzi: occidentale perché coinvolgeva anche gli Usa) di una società in cui i giovani erano maggioranza (la generazione dei babyboomers del dopoguerra, quando in Francia 1 su 3 aveva meno di vent’anni) e cominciavano a pretendere di essere attrezzati per il loro posto nella società opulenta del grande sviluppo; oggi i giovani sono minoranza in una società invecchiata che dubita dei suoi valori e del suo futuro, il fenomeno è solo italiano, e questi giovani più che pretendere un posto per il loro domani chiedono di non fare fatica oggi. Giustamente si invita a non generalizzare, ma è indubbio che non c’è spazio e forza per impedire queste cosiddette “proteste” i cui slogan sono vuoti e i cui obiettivi muoiono all’alba delle vacanze di Natale, per poi far riprendere il solito tran tran, con una scuola sempre più demotivata delle sue responsabilità educative. Chi non è d’accordo si assenta, come appunto avviene nella nostra società: tanto per fare diversamente bisognerebbe usare lo scontro fisico, perché l’abitudine alla discussione, al confronto civile, al misurarsi sulle idee e sulle proposte, e dunque a cedere alla legge della maggioranza, se ne è andata. Esattamente come avviene nella società degli adulti. Così siamo tristemente anche in questo caso nella società degli irresponsabili. Quello che avviene nelle “occupazioni” è extraterritoriale, perché ovviamente la responsabilità collettiva non esiste, e quella personale è coperta dalla omertà dei gruppi (salvo poi a correre a manifestare contro l’omertà che copre la mafia…). Si arriva anche a situazioni assai spiacevoli, con interventi dall’esterno delle scuole di professionisti di queste pseudoagitazioni, sempre con la copertura che trattandosi di esperienze “aperte” bisogna accogliere quelli che vengono a portare “contributi”… La risposta deve essere la repressione? Anche in questo caso è bene non passare da un estremo all’altro. Verrebbe da dire che tanto l’uso legittimo della forza pubblica non lo vuole più nessuno: susciterebbe ulteriori proteste, la società sarebbe pronta a stracciarsi le vesti e a fare causa comune con chi si è reso responsabile di illeciti. Le stesse autorità preferiscono lasciar correre nella consapevolezza che tanto tutto si spegne da solo dopo un po’, basta aspettare. Si arriva all’estremo che gli insegnanti di un istituto di Roma, il Morgagni, devono barricarsi dentro per difendere la loro scuola, con gli studenti che li attaccano dall’esterno per occuparla e le autorità stanno a guardare. Il problema è che comunque quel tipo di repressione che si è in grado di usare nei casi estremi serve a poco: è una sorta di spedizione punitiva delle forze di polizia che rompe qualche testa senza alcuna capacità educativa. Il tema da affrontare è invece quello della responsabilità e della responsabilizzazione. Si vuole protestare, fare la rivoluzione? Benissimo, ma, come in tutti questi fenomeni seri, si devono accettare dei costi. Gli operai che scioperano perdono il salario e non è per loro un danno irrilevante. Gli studenti che vogliono prendersi lo sfizio di occupare devono poi dover lavorare il doppio per recuperare il tempo che hanno perso, devono essere sottoposti al vaglio della verifica severa per vedere se si tratta di persone che hanno qualcosa da dire o di ragazzi che hanno solo voglia di fare un po’ goliardia, devono sapere che sono responsabili collettivamente di tutti gli eventuali danni che provocano, i quali non sono danni verso beni “dello Stato”, ma “della collettività”, cioè anche loro, perché dentro ci sono i soldi che le loro famiglie pagano con le tasse. E, diciamolo francamente, non è sempre solo un problema di educare i ragazzi, perché nella maggioranza dei casi bisogna iniziare dalle loro famiglie, che sono altrettanto irresponsabili, perché non vogliono la grana di figli alle prese con difficoltà, perché a volte hanno nostalgia di rivoluzioni di cartapesta che hanno sognato senza realizzarle, perché in fondo condividono l’idea che nel Nord Est si esprime nel famoso detto “roba del Comun, lè roba de nisun”. Qualche tempo fa i ragazzi gridavano “la crisi non la paghiamo noi”. È uno slogan emblematico dell’irresponsabilità, perché si fonda sull’illusione che si possa decidere chi paga e chi non paga una crisi come si decide se andare o non andare in discoteca. Non è così e se non vogliamo pagare (tutti, ma specialmente le generazioni più giovani) questa crisi di trasformazione a prezzi usurai dobbiamo ritrovare il coraggio di dire ai giovani che bisogna attrezzarsi a cambiare registro. E chi saprà dirlo loro in maniera convincente aggiungerà che questa sì che sarebbe una vera rivoluzione per la quale ci vuole un coraggio da leoni.

Fonte: Paolo Pombeni su ilmessaggero.it

domenica 15 novembre 2009

Come cambia la ricerca in Italia

Dopo l'università, il Ministro dell'Istruzione Gelmini firma un altro provvedimento ancora più importante: quello legato al tema della ricerca in Italia. Ancora una volta, la parola d'ordine è meritocrazia. Gli enti e le comunità scientifiche d'ora in poi dovranno mettere fine alle nomine politiche, e dotarsi di autonomia e responsabilità: redazione dei propri statuti, pianificazione triennale dell' attività, attraverso veri e propri business-plan, partecipazione al capitale di rischio, possibilità di chiamare «cervelli», organi di gestione più snelli. La selezione dei presidenti e dei componenti dei consigli di amministrazione avverrà attraverso una procedura pubblica, con candidature esaminate da un comitato di esperti di livello nazionale e internazionale. Compare anche in questo decreto il numero 7, ad indicare la quota di fondi per progetti speciali che verrà ripartita sulla base di criteri meritocratici. In tal modo si dovrebbe combattere la fuga dei cervelli, e magari cominciare ad attirare anche menti straniere, offrendo loro un sistema snello, meno burocratico e più attento alle esigenze della ricerca in senso stretto, giacché da ora parametro di riferimento per tutti sarà il Programma Nazionale della Ricerca (PNR).

Positivi i commenti dei responsabili dei principali centri di ricerca, dal CNR all'INGV agli altri. Come al solito l'opposizione sospende il giudizio (sempre meglio di certi sindacati contrari a prescindere), forse preoccupata che una fetta importante della sua base elettorale appoggi le riforme di un governo di centrodestra, forse preoccupata dalla fine delle nomine politiche o forse preoccupata del fatto che una delle riforme più importanti in ambito scientifico e culturale italiano dall'epoca del fascismo ad oggi porti la firma di un Ministro dal diverso colore politico. Insomma sempre e comunque contro, mai una volta che abbiano il coraggio di dire "una buona base su cui lavorare", come hanno fatto le persone intelligenti. L'esame in Parlamento per la conversione in legge dovrà correggere gli eventuali punti di criticità che venissero sollevati al termine dell'analisi della portata del testo proposto.

Tale decreto si bassa sulla legge-delega del 27 settembre 2007 n. 165 che dava mandato al Governo di riordinare gli enti di ricerca. Il testo del DL è stato presentato nel Consiglio dei Ministri n. 69 del 12/11/2009.

sabato 14 novembre 2009

Le Regioni usano 12mila precari per far opposizione al governo

Il 5 novembre la Conferenza Stato Regioni ha registrato il parere negativo della maggioranza delle Regioni alla legge di conversione del Decreto Legge 134/09, il cosiddetto “salva precari“. Tra le presenti solo Lombardia, Abruzzo e Sardegna hanno dato parere favorevole.

Il decreto legge è un intervento di sostegno al personale docente e non docente della scuola con contratto annuale nell’anno scolastico 2008-09 che non ha avuto il rinnovo a causa della riduzione dei posti operata con la finanziaria 2008: dei 42.000 posti di docenza ridotti, 30.000 sono stati coperti da pensionamenti, quindi resta interessata una platea di circa 12.000 docenti precari.

Il provvedimento oltre a dare priorità a questi insegnanti nella chiamata per supplenze brevi, consente alle Regioni con fondi propri di sostenere progetti promossi dalle scuole, con il coinvolgimento prioritario di questi lavoratori.

La novità è che questi interventi si configurano come politiche attive del lavoro: infatti i precari che partecipano ai progetti regionali mantengono lo status di disoccupato e il sussidio di disoccupazione, a cui si aggiunge ad integrazione un’“indennità di partecipazione“ e il riconoscimento dell'intero anno di servizio ai fini dell'attribuzione del punteggio nelle graduatorie.

Si tratta di un intervento di carattere straordinario che si fa carico dell’impatto sui lavoratori precari della contrazione di posti, consentendo un’efficace integrazione delle azioni regionali, nell’ambito delle proprie competenze di politiche attive del lavoro e di politica scolastica e formativa.

Il provvedimento è già stato approvato dalla Camera il 21 ottobre ed è al momento all’esame del Senato.

È quindi prevedibile che il parere della Conferenza Stato Regioni, non essendo vincolante, non avrà conseguenze sull’attesa conversione in Legge, ma getta un’ombra sull’effettiva ripresa dei rapporti tra lo Stato e le Regioni, appena recuperati dopo mesi di stallo.

Le motivazioni del rifiuto delle Regioni, più che al merito del provvedimento, sembrano legate al non volersi compromettere con le conseguenze della riduzione dei posti da parte del Governo, come se l’attivazione di forme di sostegno ai precari fosse un sostegno alla politica governativa. Così il vicepresidente della Giunta regionale calabrese: «È paradossale il tentativo del Governo di scaricare sulle Regioni e sugli enti locali la drastica riduzione di personale scolastico».

Le stesse Cisl e Uil, sentite il giorno prima dalle Regioni, hanno mantenuto invece un approccio più positivo, riconoscendo la ratio dell’intervento straordinario e addirittura che interventi di immediate e concrete tutele sul piano economico e giuridico erano stati sollecitati dalle stesse organizzazioni sindacali.

Per altro è da sottolineare come molte Regioni abbiano già siglato specifiche intese con il Miur per l‘attivazione dei progetti.

In questa direzione si è mossa la Lombardia, che ha sottoscritto tempestivamente un accordo con il Miur già il 7 settembre, attuato poi il 13 ottobre attraverso un patto territoriale con l‘Ufficio Scolastico Regionale, firmato da tutte le sigle sindacali regionali, compresa la Cgil.

Sono già state raccolte le richieste di adesione da parte dei precari - 750 in tutto - e sono in corso gli incontri tra il personale e le scuole ed enti di formazione promotori dei progetti.

È da evidenziare che iniziative di questo tipo possono offrire anche lo spunto per sperimentare forme nuove di politica scolastica; per questi progetti infatti scuole e docenti in Lombardia si incontrano liberamente e non seguono punteggi o graduatorie.

È anche in questo modo che si creano i presupposti affinché le Regioni agiscano concretamente sulla base delle competenze attribuite dal Titolo V, che ancora attende di essere attuato forse anche per la poca iniziativa di molte delle Regioni stesse.

Infine, è questo un caso esemplare di applicazione del principio di sussidiarietà e di piena responsabilità di ciascun livello istituzionale nell’offrire risposte per il bene comune; da questo punto di vista molte Regioni hanno perso un'occasione importante.

Fonte: Eugenio Gotti su ilsussidiario.net

giovedì 29 ottobre 2009

Come cambia l'università italiana

Finalmente è arrivato il giorno in cui inizia ufficialmente il nuovo corso dell'Università italiana. Finalmente si torna a parlare di produttività scientifica, di valutazione, di fondi mirati, di meritocrazia, e non più soltanto ad una università di massa ed indistinta tanto cara a certa cultura di sinistra che ha prodotto lo sfascio che tutti purtroppo ben conosciamo. La riforma riguarda tutti i comparti dell'università: dal settore amministrativo a quello della ricerca, da quello economico a quello studentesco. Via corsi e facoltà inutili nate solo per dare lavoro ad amici ed amici degli amici, basta scatto di stipendio automatico per i professori ma crescita della retribuzione legata alla produzione scientifica ed all'attività di Ateneo, maggiore attenzione per gli studenti che non debbono essere lasciati al loro destino ma costantemente seguiti, aiuti finanziari ad atenei e studenti meritevoli mentre commissariamento per quelle strutture in condizioni di forte indebitamento. Finalmente si combattono seriamente le baronie ed i centri di potere univeritari con un codice etico che servirà anche a rendere maggiormente trasparente l'utilizzo dei fondi. Finalmente anche un ripensamento generale sul ruolo dei ricercatori: ora si pone una base temporale certa entro la quale, dopo al massimo un doppio contratto triennale (3+3, quindi 6 anni) o l'università decide di assumere in pianta stabile oppure niente, se il ricercatore non ha dimostrato le necessarie capacità se ne torna a casa; aumentato anche lo stipendio e l'assegno di ricerca. La riforma è "corposa ed organica" ed è destinata certamente a fare epoca: ora, al di là delle inevitabili proteste politiche della sinistra più sinistra (la CGIL ha già annunciato forti mobilitazioni), ci si aspetta che la maggioranza di chi vuole fare e non soltanto di chi vuole avere la porti a compimento all'interno. È certamente una riforma che scardina alla base il concetto che tutto è dovuto e che finalmente introduce, in un settore cruciale come l'istruzione terziaria, il concetto che tutto va meritato e conquistato con le proprie capacità e con la propria applicazione. Da sottolineare infine che si tratta di un disegno di legge a lunga gestazione e che quindi dovrà essere convertito in legge prima della sua applicazione: si spera che entro marzo 2010 possa essere definitivamente approvato e che la discussione parlamentare non ne stravolga il senso e che dunque, l'opposizione collabori fattivamente a migliorare ciò che ritiene vada migliorato e non a distruggere ciò loro non hanno fatto per proteggere i diritti senza doveri del suo bacino culturale di voti. Di seguito il video da fonte governativa della conferenza stampa congiunta Gelmini-Tremonti al termine del Consiglio dei Ministri n° 67 del 28/10/09 che ha approvato il ddl:

Per approfondimenti:

La Stampa: Meritocrazia e Rettori a termine

Il Messaggero: Università, via libera alla riforma

Testo ddl via liberlex

lunedì 14 settembre 2009

Via dalla scuola i prof che fanno politica

ROMA — «Ci sono alcuni dirigenti scolastici e insegnanti, una minoran­za, che disattendono l’attuazione del­le riforme». In che senso disattendo­no? «Ad esempio vogliono mantenere il modulo anche se il modulo è stato abolito con il passaggio al maestro unico prevalente». Alcuni docenti, co­me sa, non condividono la riforma. «Criticare è legittimo ma comportarsi così significa far politica a scuola e questo non è corretto. Se un insegnan­te vuol far politica deve uscire dalla scuola e farsi eleggere. Quella è la se­de per le sue battaglie, non la catte­dra ». Comincia l’anno scolastico, il mi­nistro della Pubblica istruzione Maria­stella Gelmini ha appena fatto gli au­guri («in bocca al lupo») agli 8 milio­ni di studenti che da oggi torneranno in classe. Ma, con la protesta dei preca­ri e la manifestazione annunciata dal Pd, questo primo giorno di scuola sembra portare con sé nuove tensio­ni.

Ieri, sul Corriere, Ernesto Galli della Loggia ha paragonato il ruolo del ministro dell’Istruzione a San Se­bastiano, bersagliato da ogni parte e destinato quasi sempre a scontenta­re tutti. Lei è su quella poltrona da un anno e mezzo, si trova d’accor­do?

«È vero, è un ruolo complicato ma non mi sento un ministro particolar­mente contestato. Tempo fa, ricordo, ne parlai con il mio predecessore Lui­gi Berlinguer».

Anche lui ebbe qualche guaio.

«Con un certo senso dell’umori­smo mi disse che ero molto fortunata perché il vero inferno l’aveva vissuto lui, criticato anche dalla sua stessa maggioranza».

Lei non ha questo problema ma oggi ci saranno manifestazioni di protesta in tante città.

«Rispetto chi contesta ma sono con­vinta che si tratti di un numero molto limitato di persone».

Limitato?

«Limitato rispetto ai tanti genitori e studenti che non si vogliono più ac­contentare di una scuola mediocre. E che non vogliono sentir parlare solo di organici e di curriculum ma di scuo­la come luogo di educazione, di un servizio che dovrebbe stare a cuore a tutti. Come gli ospedali».

Per rimettere ordine nel campo dell’istruzione Galli della Loggia si augura proprio uno sforzo congiun­to di tutte le forze politiche interes­sate al bene del Paese. Lei ci crede?

«No. Nella mia prima audizione in Parlamento avevo auspicato che tutte le riforme venissero affrontate con uno spirito bipartisan. Dopo un anno, dalla sinistra non ho sentito proposte ma solo invettive contro il governo: se necessario, quindi, andremo avanti da soli. Su questo punto sono delusa dal mio predecessore, Giuseppe Fioro­ni ».

Alcune riforme del ministro Pd, ad esempio sull’istruzione tecnica e sulla formazione, lei però le ha con­fermate.

«Sì, perché sono decisioni che con­divido. Ma credo che ormai Fioroni debba scegliere se fare il responsabile istruzione del Pd, e quindi lavorare per il bene della scuola italiana, oppu­re fare politica punto e basta. Nessuna sorpresa se lui gioca una partita in vi­sta del congresso del suo partito ma non usi la scuola come strumento del­la contesa tra Franceschini e Bersani. La scuola non può essere il luogo del­la protesta della sinistra e della Cgil».

Intende dire che la protesta dei precari è strumentalizzata dalla sini­stra?

«La protesta esprime un disagio rea­le che va rispettato. Ma la sinistra pre­ferisce salire sui tetti per esprimere la solidarietà ai professori e cavalcare il disagio sociale senza assumersi re­sponsabilità per il passato».

Sono solo loro le responsabilità? In questi anni ha governato anche il centrodestra.

«Sono responsabilità che vengono da lontano. Per anni, complici i sinda­cati, si è data la sensazione che ci fos­se spazio per tutti quelli che volevano fare gli insegnanti, per poi lasciarli in graduatoria anni ed anni. Sono state vendute illusioni che si sono trasfor­mate in cocenti disillusioni».

Ma chi aspetta un posto da 20 an­ni ed è ancora precario ha forse tor­to a scendere in piazza e chiedere una cattedra, uno stipendio?

«No, certo. Credo che nei prossimi cinque anni, grazie ai prepensiona­menti, la gran parte di questi precari verrà assorbita negli organici. Ma è fondamentale impedire che nel frat­tempo si allunghi di nuovo la coda. Per questo abbiamo chiuso le sis, le scuole di specializzazione per l’inse­gnamento, e introdotto il numero pro­grammato ».

È vero che il Quirinale ha espres­so dubbi sull’inserimento della nor­ma salva precari nel decreto Ronchi sulle violazioni comunitarie? Servirà un decreto ad hoc?

«Dal Colle non ci è arrivata nessu­na comunicazione ufficiale. Se arrive­rà la rispetteremo anche se resto con­vinta della nostra scelta. In ogni caso sarebbe uno slittamento di pochi gior­ni ».

Ministro, gli stranieri sono sem­pre più numerosi nelle nostri classi. In alcuni casi si arriva al 97 per cen­to degli studenti: va bene così?

«No, rischiamo di creare delle clas­si ghetto. Dall’anno prossimo ci sarà un limite del 30 per cento. Volevamo introdurlo già quest’anno ma non c’erano i tempi tecnici per procede­re ».

L’inglese alla scuola media. La possibilità di aggiungere due ore al­le tre già previste si è scontrata con le ordinanze del Tar del Lazio. Ci ri­proverà l’anno prossimo?

«È vero che ci sono delle difficoltà applicative. Ma, compatibilmente con gli organici, è una strada percorribile già quest’anno. È stata chiesta dal 15 per cento delle famiglie».

E per l’università? Quando crede che arriverà in porto la riforma?

«Tra ottobre e novembre partirà l’esame in Parlamento, spero che il prossimo anno sia operativa».

Anche quest’anno ci sono stati er­rori nei test d’ingresso. È un model­lo da modificare?

«Per medicina c’era solo un errore sul sito internet, l’abbiamo corretto e il quesito sarà conteggiato. Mentre per architettura stiamo valutando se non tener conto di una domanda che forse non era chiara. In futuro i test non saranno più gestiti dalle singole università ma nazionali, per ogni fa­coltà. Così sarà possibile indirizzare ogni ragazzo verso la facoltà più adat­ta al suo talento ed al suo merito».

Lorenzo Salvia sul Corriere della Sera del 14/09/2009

giovedì 26 marzo 2009

Parentopoli, quando l'università è affare di famiglia

Presento oggi questo libro scritto dal giornalista Nino Luca, dove con lucida oggettività vengono presentati i centinaia di casi di nepotismo che ammorbano il mondo accademico. Vere "famiglie", un'organizzazione capillare di "stampo mafioso" (a detta dei giudici). Si potrà scoprire come i primi a protestare contro la pseudo-Riforma Gelmini, e cioè i Rettori, sono i primi impelagati in questo magico mondo di "consigli", con l'assunzione di mogli, figli, nipoti, portaborse, amici e amici degli amici. E la giustizia? Praticamente impotente, tra lentezze burocratiche, vuoti giuridici e normative un po' bislacche.

Così, il giornalista siciliano originario di Sydney, avvalendosi della banca dati della pubblica amministrazione accessibile via internet, ha ricostruito con dovizia di particolari, gli innumerevoli concorsi truccati che funestano il mondo accademico, tra casi limite e giustificazioni improbabili. Un libro certamente da leggere e da meditare.

Titolo: Parentopoli. Quando l'università è affare di famiglia Genere: Educazione Autore: Nino Luca Editore: Marsilio Anno: 2009 Collana: Gli specchi Informazioni: pp. 315 Codice EAN: 9788831797696

Prezzo di listino: € 18,00

lunedì 16 febbraio 2009

Università: Times, quelle italiane sempre più giù

Mesi di proteste per la riforma voluta dal Governo Berlusconi e dal Ministro Gerlmini (e per ora solo parziale), ma quello che difendono i Baroni ed il loro esercito di studentelli senza arte né parte è un mondo universitario allo sfascio, che ogni anno viene giudicato in maniera sempre peggiore. Nel classico appuntamento con la classifica stilata dal Times risulta che tra le Università italiane soltanto Bologna è tra le prime 200, e per poco, visto che rispetto al precedente anno è passata dal 175° al 192° posto.

E si sottolinei e si noti che questa performance è stata ottenuta in regime di finanziaria 2008, cioè dopo due finanziarie del Governo Prodi. Se la classifica non giustifica i tagli del Governo (certo dovuti ad altri fattori evidentemente) come dice il Ministro Ombra Maria Pia Garavaglia, l'immobilismo di chi non vuole cambiare nulla o vuole solo far finta di cambiare qualche cosa di minor conto serve solo a distruggere il sistema oramai in via di disfacimento. Tutti chiedono più soldi: ma per fare cosa? Per assumere più parenti ed amici? Per dare più soldi alla ricerche filosofiche e a quelle sull'asino dell'Amiata? Perché non imparano questi baroni ad utilizzare meglio ciò che hanno? È stato il Ministro Fioroni del Governo Prodi a dire che il mondo universitario italiano può offrire le stesse cose anche con il 10% di finanziamenti in meno... Si parta da lì e dal negare lo stipendio a chi non fa ricerca, poi si vedrà quanti soldi servono effettivamente...

Infatti la situazione è oramai sempre più deprimente: i professori della Bocconi invece di proporre controriforme al Governo, pensassero a sistemare la loro università, addirittura fuori dalle prime 400. Considerata un vanto per il suo livello, giudicata tra le migliori università di economia a livello internazionale avendo espresso alcuni tra gli economisti più in vista, al confronto con tutte le strutture internazionali.

La classifica tiene conto non solo dell'opinione di migliaia di esperti internazionali ma anche dell'opinione degli studenti: confortante notare come USA e GB monopolizzino le prime 10 posizione. Ma l'Onda formata dal movimento sinistrorso dell'Università italiana ha stabilito che questi due modelli sono fallimentari e dunque vanno scartati a priori... Se queste persone potessero prendere provvedimenti non ci resterebbe che piangere.

http://rassegnastampa.crui.it/minirass/esr_p1.asp?dacbo=si&cbogiorno=14/2/2009

martedì 20 gennaio 2009

Università: allargare i requisiti nei concorsi per la docenza

In questi giorni il CUN (Comitato Universitario Nazionale), ha rilasciato gli "Indicatori di attività scientifica e di ricerca" validi ai fini dell'ammissione alle fasce di docenza in termini di qualità e quantità. Ad una prima lettura tuttavia, questi indicatori appaiono largamente deficitari e tutt'altro che in linea con gli indirizzi che l'attuale Governo sta cercando di dare all'Università italiana: meritocrazia e promozione dei talenti in primis. Sebbene si dica che tali indicatori non sono automaticamente esclusivi nella scelta di un candidato, di fatto diventano determinanti. Infatti, prendendo in considerazione l'ambito delle scienze giuridiche, per ora si tiene conto solamente della quantità di materiale pubblicato su suolo italiano: 1 monografia e 8 articoli per la docenza da associato, 2 monografie e 10 articoli per la prima fascia, in entrambi i casi senza tenere conto delle pubblicazioni sulle riviste internazionali.

Si pone dunque un problema di metodo nella scelta di questi criteri: una "monografia tradizionale" richiede almeno 3 anni di studio (infatti, i Dottorati di Ricerca durano 3 anni), ma certamente preparare un articolo per una rivista internazionale richiede ugualmente un periodo lungo per acquisire le conoscenze necessarie. Includere soltanto riviste nazionali, prendendo per buone perfino le riviste di dipartimento (come dire: "me la suono e me la canto"), significa privilegiare quei giovani studiosi che decidono di seguire le orme dei loro maestri, dedicandosi al filone di ricerca nazionale e rimanendo dunque ancorati alla base, mentre si decide quasi a priori di non premiare quei giovani che hanno avuto le capacità di affacciarsi in ambito transnazionale. Perfino le monografie vengono non di rado pubblicate dalla stamperia d'Ateneo, di Facoltà o ancora di Dipartimento, con tutto ciò che ne consegue a livello di scambio di favori e di gestione tutt'altro che oculata dei fondi.

Dunque, ancora una volta sembra che il sistema universitario nazionale sia ingessato nel tentare di mantenere il controllo completo sulla carriera universitaria dei suoi membri, partendo dai concorsi per i dottorati di ricerca (assurdo che siano concorsualizzati perfino i posti senza borsa!) per arrivare all'accesso alla carriera accademica ed al suo percorso. Decidere a priori di non tenere in considerazione (invece di premiare) chi, giovane studioso, decide fin da subito di confrontarsi con il miglior dibattito internazionale, è lo specchio migliore di quanto ancora si debba fare per scardinare il sistema baronico universitario.

venerdì 2 gennaio 2009

2009: ripartire per una Università migliore

Certamente il 2008 è stato un anno molto difficile per l'istruzione terziaria italiana. Il cambio di Governo ha portato con sé anche un netto cambio di rotta: basta con le vecchie regole, basta con i finanziamenti a pioggia, basta con l'università dei poteri forti e delle baronie. Sarebbe sciocco non dire che il problema si poteva affrontare meglio e con una comunicazione più tempestiva, invece di approvare la legge di bilancio e poi lasciare che facesse il suo corso: lo scontro con le parti interessate è stato duro e frontale, anche se poi non ha prodotto niente altro che qualche ammaccatura. Quello che color signori non hanno voluto capire è un concetto molto semplice che cerco di riassumere in poche righe:

  • l'Università italiana non è eccellente, non produce risultati apprezzabili e come già disse il Governo Prodi nelle sue analisi può fare le stesse cose con il 10% in meno dei fondi statali

Non ci si può infatti sempre nascondere dietro i 2-3 poli di eccellenza del nostro Paese, perché i poli di eccellenza li troviamo anche in Cile. Di fronte alla legge di bilancio, l'oramai famosa 133, tutti hanno gridato allo scandalo denunciando il duo Gelmini-Tremonti come dei barbanera con le forbici che guardano all'Università soltanto come un sistema dal quale fare cassa. Ammesso e non concesso che sia vero, sempre meglio che guardare ad essa come un sistema di potere, nel quale piazzare amici, parenti e raccomandati di ogni genere.

Il libro del prof. Perotti, L'Università truccata, è il perfetto esempio della malagestione tutta italiota dell'Università nostrana: non di certo un libro governativo, ma un libro che presenta dati di fatto, inchieste della magistratura e le tante nuove idee che servirebbero a rilanciare questo stanco settore, che produce sempre più umanisti della comunicazione e sempre meno scienziati in un Paese che invece chiede a gran voce il contrario.

È vero, il 10% di tagli in 5 anni non sono bazzecole, ma non sono neanche una catastrofe se ci si saprà organizzare in tempo: inutile gridare alla mancanza di fondi quando a Messina con i soldi pubblici si tappezzano con arazzi e divani in pelle gli uffici, oppure a Siena si affittano gli attici in piazza del Campo per vedere il Palio; inutile gridare alla mancanza dei fondi per la ricerca se poi si finanziano attività sull'asino dell'Amiata, oppure si danno €500.000 per ricerche di filosofia, lasciando i ricercatori pisani che indagano sulle staminali con miseri €27.000. E cosa dire di un sistema che destina più del 90% dei propri fondi allo stipendio del personale? A questi parrucconi si dovrebbe dire: "prima utilizzate al meglio i soldi che abbiamo, poi parliamo di aumentare tali fondi". I paragoni con Paesi come Francia e Germania servono solo come specchietti per le allodole: noi spendiamo la metà perché abbiamo il doppio del debito pubblico. Per di più abbiamo un sistema di gestione peggiore e nettamente differente. Cosa dire di quelle Università dove si entra nei dipartimenti e si legge "figlio di", "moglie di", "parente di" per il 70% del personale? A cosa serve aumentare i fondi a questi dipartimenti se non ad assumere un nuovo genero?

Tagliare i fondi non risolverà la situazione, ma almeno impone ai rettori delle scelte: il Magnifico della Sapienza, Frati, ha deciso di tagliare lo stipendio a chi non fa ricerca, di diminuirlo a chi non pubblica, di bloccare gli scatti di anzianità a chi non si comporta con la dovuta deontologia professionale. Senza quei tagli questo non sarebbe avvenuto, e si sarebbe andati avanti come da 20 anni a questa parte. È anche disinformazione allo stato puro continuare a ripetere che i tagli sono a pioggia: con l'ultimo decreto il Ministro Gelmini ha posto dei paletti, ha destinato un cospicuo fondo da ripartire per "meriti", ha guardato con attenzione al mondo del precariato della ricerca creando delle vie preferenziali per l'assunzione di giovani ricercatori e più in generale per un ricambio generazionale all'interno di un mondo che da piramidale qual'era e quale dovrebbe essere si è trasformato in cilindrico, con sempre più professori e sempre meno ricercatori.

È finito il tempo delle vacche grasse in cui ognuno si abbevera alla fonte dello Stato, del finanziamento pubblico: lo statalismo è quel cancro che ha portato l'Italia nell'odierna situazione, dove i figli pagano oggi il benessere dei padri di ieri. Lo Stato taglia i fondi? Ma allora perché scappare anche da quelli privati? Il Sole 24 Ore ha pubblicato un dato OCSE che mostra come il finanziamento dell'industria privata in Italia sia calato dal 3,8% all'1,8% nel giro di 10 anni, mentre nel resto d'Europa si è mantenuto invariato sulla media del 5%, in Russia ed in Cina è addirittura aumentato, passando nel primo caso dal 25% al 30% e nel secondo caso superando la soglia del 35%.

Come non parlare infine delle nuove regole: i concorsi con l'estrazione dei docenti hanno dato una bella botta a quel sistema di favori e controfavori per la promozione di gente "fidata". Di pochi giorni fa è la notizia che la Guarda di Finanza, in una delle inchieste che coinvolgono l'ateneo di Bari, ha trovato un'agenda nella quale un professore scriveva per filo e per segno tutti i candidati da aiutare, con caratteristiche e favori da elargire. Anche questo è un segno di come si vuole cambiare l'università, di come si cerca di ripristinare quell'antico concetto del "merito" oggi abbandonato a favore dell'università dell'uguaglianza, un concetto caro ai comunisti che ha distrutto tale sistema relegandolo agli ultimi posti rispetto a quello dei Paesi nostri concorrenti.

E poi ancora tante nuove idee, proposte e disegni di legge (in parte già approvati) per rendere tale sistema più dinamico, con una maggiore edilizia studentesca e con una maggiore possibilità di mobilità sociale reale e non presunta come oggi.

Ecco forse davvero, con queste rinnovate premesse si può guardare al 2009 come l'anno per il rilancio dell'Università italiana. Auguriamocelo tutti.

Buon 2009!