venerdì 28 novembre 2008

Ricerca: l'Onda anomala e l'aria fritta

Cari lettori, come molti di voi sapranno nel periodo di massima protesta degli studenti universitari si è contestualmente svolta un'assemblea aperta in quel della Sapienza dove 3000 studenti (secondo gli organizzatori) avrebbero discusso su alcune linee guida di riforma dal basso, producendo 3 documenti. La loro lettura è estremamente interessante e soprattutto rivela il grado di cultura (basso) e di ideologia (altissimo) di chi ha scritto quei documenti. Intervengo con ritardo perché in questi giorni sono stato altrimenti impegnato.

Partiamo dalla ricerca. Nel relativo testo si legge un po' di tutto, andiamo con ordine:

  • Indipendenza ed autonomia della ricerca: socializzazione dei risultati della ricerca, democratizzazione dell'accesso ai fondi anche per i dottorandi, tutela libera e non commerciale (GPL vs brevetti).
Fumosità ai massimi livelli: come è possibile valutare l'impatto di una ricerca sulla società? Con quali parametri? In che modo si dovrebbe democratizzare l'accesso ai fondi per tutti i soggetti interessati (financo ai dottorandi!)? Nulla, silenzio assoluto...
  • autonomia della ricerca e nuovo modello di valutazione, legato alla rendicontazione sociale e disgiunto dai bilanci, dai brevetti e dalle pubblicazioni
Mi chiedo se chi ha scritto questo documento abbia ben capito di cosa parla oppure, per il semplice fatto di usare dei "paroloni", pensa automaticamente di aver scritto concetti elevati...
  • reddito per tutti e per qualunque attività, dai dottorandi fino ai praticantati
Magari in un quarto documento ci faranno sapere con quali risorse...
  • abolizione dei dottorati senza borsa
Questa è una delle idiozie più grosse che abbia mai sentito: non solo in tal modo si trasforma il titolo di Dottorato nell'unico binario di accesso alla docenza universitaria e lo si giudica invece inutile per la società nel suo complesso. Allo stato attuale, si tratterebbe di abolire almeno il 40% dei posti di dottorato disponibili (per legge devono essere coperti al 50% da borse, quindi esiste almeno un 40-50% di posti senza borsa). Dunque, invece di liberare tali posti dal gioco del concorso come avviene all'estero (presento un progetto e l'università valuta se accoglierlo oppure no, tanto la ricerca la pago da me), li si vuole direttamente abolire. Oggi, l'ultimo posto in un concorso di Dottorato è l'unica possibilità che hanno i meritevoli di accedere, visto che i posti con borsa sono occupati dagli "allievi di": abolirli significa nepotizzare ancora di più permettendo un controllo ancora più capillare e maggiore l'accesso alla docenza universitaria.
  • abolizione del turnover, contratto unico di lavoro subordinato al termine del dottorato, ruolo unico nella docenza
Qui si sfiora la follia: il blocco del turnover serve ad impedire che università che sono fuori legge spendendo oltre il 90% in stipendi continuino a reclutare docenti senza poterlo fare; serve ad impedire che lo Stato italiano spenda un mucchio di soldi in stipendi che potrebbero essere reinvestiti in attività di ricerca, soprattutto in un momento come questo dove la liquidità scarseggia.
  • partecipazione dei ricercatori precari e dei dottorandi ai processi decisionali dell'università tramite rappresentanti eletti
L'unico punto sul quale mi sento di concordare
  • riformare l'università guardando all'estero ma scartando subito il modello anglosassone che ha fallito in Inghilterra e negli Stati Uniti
Sarebbe interessante capire sotto quale punto di vista il modello anglosassone ha fallito: poca ricerca, poca mobilità sociale, dov'è che è sbagliato? Poi, a quale modello europeo bisognerebbe guardare, quello francese, quello tedesco, quello svedese, quello lituano o magari ungherese?

Infine, nelle righe finali abbiamo la chiave di lettura: «Una molteplicità di strade ma molte di più, pensiamo, sono quelle che usciranno dalla fantasia di questo movimento, dalla forza della partecipazione che lo sta facendo vivere, dalla capacità di sperimentare percorsi nuovi che ha mostrato in questi giorni di mobilitazione».

Se si dovesse giudicare un movimento dalla sola partecipazione, l'Onda ha fallito in tutto e per tutto. Concordo sul fatto che solo la "fantasia" poteva produrre una tale massa di paroloni senza senso, dalla rendicontazione sociale, alla democratizzazione, alla gerarchizzazione: appunto, aria fritta e probabilmente anche un po' marcia.

Si parla di concorsi ma non di come riformarli (va bene il sistema attuale quindi? Panico...), non una parola sulla valutazione della ricerca e della didattica, per la quale anzi si rifiutano sia i brevetti che le pubblicazioni (avessero almeno spiegato come parametrizzare la socialità della ricerca!), si chiedono più soldi, molti più soldi, ma non si dice una parola su come reperirli, visto che si rifiuta il supporto del settore privato. La natura dell'estensore si appalesa per quello che è: un mix di concetti veterocomunisti e veterosessantottini, che gli Italiani hanno rifiutato a stragrande maggioranza e che hanno già distrutto l'università oltre ogni più fosca apparenza. Vivere sulla nube di Oort e poi pretendere di "autogestire" la riforma di un settore così complesso e vitale per il Paese è uno sport estremo che non deve avere patria in Italia. Colgo con grande favore la rinuncia dell'Onda a presentarsi alle elezioni universitarie della Sapienza, dove le formazioni di centrodestra (non tutte legate ai partiti di Governo, giova ricordarlo) hanno ottenuto un successo netto e probabilmente non preventivabile: meglio così, meno potere decisionale hanno i sinistrorsi, meglio sarà per il Paese.

Quando poi passeremo ad analizzare il documento sulla didattica, beh allora ci sarà spazio anche per le scimmie da circo...

Università: l'anomalia dell'Onda e la politica del nulla

Di Rossano Salini per ilsussidiario.net

Ci sono due episodi, accaduti negli ultimi giorni, che possono tornare assai utili per capire che cosa stia accadendo intorno al tema università, soprattutto per quanto riguarda le dinamiche politiche annesse. Si tratta di due voci, molto diverse tra loro, che hanno avuto in sorte una medesima sostanziale indifferenza da parte di media e politici. Ma la prima è caduta nel nulla per debolezza intrinseca, quindi a ragione; la seconda invece per debolezza del destinatario cui il messaggio era indirizzato.

La prima voce di cui si parla è stata quella degli studenti dell’Onda, i quali, al termine di una lunga serie di iniziative di protesta, domenica 15 novembre si sono riuniti per formulare la loro proposta di riforma. Anzi, di “autoriforma”, come loro stessi l’hanno chiamata. Sono passati dieci giorni, ma di quel proclama non si vede effetto alcuno. Molto semplice capire il motivo per cui la proposta, pur preparata con cura e adeguatamente articolata in più punti, non abbia ricevuto molta attenzione: si è trattato infatti di una confusa dichiarazione d’intenti, assolutamente irricevibile e del tutto decontestualizzata dal dibattito pubblico, nazionale e internazionale, sul rilancio del sistema dell’università. Nulla su autonomia, governance, valutazione: solo un antiquato catalogo sindacalese su abbassamento delle tasse, abolizione dei contratti precari, assunzioni di massa, stipendi minimi a 1300 euro anche per i dottorandi, accessi gratuiti a cinema, teatri, musei. Proposte sconsiderate, vista la loro assoluta insostenibilità economica; ma soprattutto idee prive di una base culturale aggiornata, che recepisca almeno uno degli stimoli provenienti dal dibattito provocato, tanto per fare un esempio, da un volume di grande successo come “L’università truccata” di Roberto Perotti. D’altronde non è il primo caso in cui un abbozzo di pars construens in tutto il recente subbuglio anti-Gelmini abbia dimostrato la propria inconsistenza: già il Pd, che ha a più riprese fatto proprie le ragioni del movimento di protesta, aveva alcune settimane or sono lanciato nientemeno che un decalogo per l’università. Iniziativa ben poco incisiva, che ha solo raccolto autorevoli critiche di merito sulla manchevolezza delle proposte stesse (si vedano le argomentazioni di Andrea Ichino dalle colonne de Il Sole 24 Ore).

Veniamo ora alla seconda voce “dimenticata” degli ultimi giorni, anch’essa parzialmente collegata al tema università. Si tratta delle pubbliche dimissioni di Irene Tinagli dal coordinamento nazionale del Pd; una comunicazione arrivata da Pittsburgh, dove la dimissionaria risiede, tramite lettera pubblicata su Il Riformista. Lo stesso quotidiano denunciava ieri il silenzio in cui la missiva è stata lasciata cadere. In questo caso però, come si diceva, l’indifferenza è colpevole, perché le argomentazioni della Tinagli sono di tutto rispetto. Ecco il passaggio che più qui interessa: «Non ho visto nessuna proposta incisiva, se non “andare contro” la Gelmini. Peraltro tra tutti gli argomenti che si potevano scegliere per incalzare il ministro sono stati scelti i più scontati e deboli. Il mantenimento dei maestri, le proteste contro i tagli, la retorica del precariato, tutte cose che perpetuano l'immagine della scuola come strumento occupazionale. È questa la linea nuova e riformista del PD? Cavalcare l'Onda non basta. Serve una proposta davvero nuova, che ribalti certe logiche di funzionamento anziché difenderle. Ma non ho visto niente di tutto questo». Accuse pesanti, nonché stridenti, per valore culturale, con l’avvilente balletto intorno a Villari in cui il partito chiamato in causa era nelle stesse ore (ed è tuttavia) impegnato.

I due episodi si tengono, e la morale è del tutto semplice: facilissimo alzare il polverone della protesta, assai più arduo giungere a proposte credibili. Scuola e università meritano grande attenzione, e il governo non ha certo dimostrato per il momento particolare sensibilità sull’argomento. Ma dalla parte opposta del governo ci stanno innanzitutto coloro che vogliono, tramite difese corporative, mantenere privilegi e situazioni di favore cementate negli anni. L’esito al momento è che il governo scende a patti con questi per mitigarne le reazioni, e l’opposizione cavalca le proteste dei medesimi soggetti per guadagnarne il consenso politico. Le corporazioni sono gli unici interlocutori cui il debolissimo mondo della politica presti attenzione. E pare che il dibattito in Senato in questi giorni intorno al decreto sull’università stia per l’ennesima volta dimostrando questo dato poco consolante.

Difficile, al momento, ipotizzare che le voci veramente riformiste (ci sono, e crescono sempre più per quantità e qualità) possano al momento ricevere ascolto. La parte innovativa e culturalmente forte del nostro paese rimane come al solito qualcosa di totalmente estraneo agli interessi della politica, dell’una e dell’altra parte.

Decreto 180: il PD emenda ma vota contro lo stesso...

Sembra di essere in un manicomio di schizzofrenici: un partito politico si batte affinché una legge cambi nel senso che egli stesso propone, quei cambiamenti vengono accolti, ma quello stesso partito politico continua a votare contro. Per "partito preso"? No, perché siamo in Italia e l'inutilità dell'opposizione si misura in questa schizzofrenia politica senza fondo. Dunque, il decreto Gelmini, anche se corretto, anche se in molti punti ha registrato convergenze tra opposizione e maggioranza, contiuerà ad essere "manchevole e minimale". Ovvio, il PD in Parlamento prova a fare il suo dovere (insomma poveretto, bisogna comprenderlo, ognuno fa quel che può ed è capace di fare, e dunque giudichiamo positivamente lo sforzo di chi è in grado di fare poco), però in piazza di fronte alla gente deve dimostrare di essere duro e puro, una opposizione senza sconti e senza compromessi: per cui, il Governo che accettando gli emendamenti perfino di Pancho Pardi (signori, gli emendamenti di un personaggio dei fumetti!) pensava di essersi guadagnato l'astensione, ha di nuovo fatto male i conti (e noi si potrebbe aggiungere povera la maggioranza che ancora ci crede). Alla fine, nel PD si è consumata l'ennesima spaccatura: una persona che di università e di scuola ne capisce davvero e le cui proposte sono estremamente interessanti, come il senatore Nicola Rossi, ha abbandonato l'aula per aperto dissenso contro la linea tenuta dal suo partito. E non è il solo: Irene Tinagli si è dimessa dal coordinamento nazionale del PD perché inconsistente e veteroretorica la politica del partito sull'Istruzione italiana, talmente tanto da indurre un personaggio di tale levatura addirittura alle dimissioni (cosa rara in Italia). Peccato che di entrambe le cose, in televisione o nei giornali, si sia detto poco o nulla, qualche riga ben nascosta in mezzo agli articoli: e meno male che l'informazione è monopolizzata da Berlusconi!

Vediamo in ogni caso, dalle pagine di corriere.it, i principali punti del decreto 180 in via di conversione al Senato:

Università: le novità del decreto Gelmini

Stop ad assunzioni per gli atenei in deficit, nuove regole per i concorsi dei docenti e strumenti anti «baronati»

ROMA - Ora tocca all'università. Il decreto legge Gelmini sull'università, licenziato dalla commissione Istruzione del Senato arriva all'esame dell'aula. Stop alle assunzioni nelle università con i conti in rosso, deroga parziale al blocco del turn-over, invece, negli atenei virtuosi. Ma anche nuove regole per i concorsi di docenti e ricercatori universitari e strumenti per combattere i «baronati» dentro gli atenei. Diverse le novità apportate in commissione: gli emendamenti del relatore, il senatore del Pdl Giuseppe Valditara, hanno introdotto una stretta sui baroni (per fare carriera i docenti dovranno produrre pubblicazioni scientifiche, bando, insomma, ai fannulloni) e l'obbligo per gli atenei di rendere più trasparente l'uso delle risorse messe a bilancio e la produzione scientifica.

ASSUNZIONI - Il dl prevede il blocco delle assunzioni nelle università che, alla data del 31 dicembre di ciascun anno, abbiano i conti in rosso. Per gli atenei indebitati c'è anche l'esclusione, per il 2008-2009, dei fondi straordinari per il reclutamento dei ricercatori. Scatta, invece, il parziale sblocco del turn-over (che passa dal 20% al 50%) negli atenei virtuosi a patto che il 60% dei soldi sia speso per reclutare i giovani. In base ad un emendamento approvato in commissione ci si può avvalere per le assunzioni anche del supporto economico di soggetti privati.

CONCORSI - Cambiano le regole per la composizione delle commissioni. Per la selezione dei docenti sono previsti un ordinario nominato dalla facoltà che bandisce il posto e quattro professori ordinari sorteggiati su una lista di dodici persone da cui sono esclusi i docenti dell'università che assume. Per i ricercatori la commissione è così composta: un ordinario e un associato scelti dalla facoltà che bandisce il posto e due ordinari sorteggiati in una lista che contiene il triplo dei candidati necessari, esclusi sempre i docenti dell'ateneo che assume. Un emendamento votato oggi prevede che ci sia una commissione nazionale designata dal Cun (Consiglio universitario nazionale) per supervisionare le operazioni di sorteggio che saranno pubbliche. Le nuove commissioni valgono anche per i concorsi già banditi, ma intanto sono stati riaperti i termini per partecipare ai concorsi in atto, viste le novità.

NORME ANTI-«BARONI» - Tra le novità introdotte in commissione al Senato, le norme anti-baroni: è prevista la costituzione di una anagrafe (aggiornata annualmente) presso il ministero con i nomi di docenti e ricercatori e le relative pubblicazioni. Per ottenere gli scatti biennali di stipendio i docenti dovranno provare di aver fatto ricerca e ottenuto pubblicazioni. Se per due anni non ce n'è traccia lo scatto stipendiale è dimezzato e i docenti non possono far parte delle commissioni che assumono nuovo personale. I professori e i ricercatori che non pubblicano per tre anni restano esclusi anche dai bandi Prin, quelli di rilevanza nazionale nella ricerca. Gli atenei dovranno anche garantire trasparenza nei bilanci e far sapere agli studenti come vengono spesi i finanziamenti pubblici. I rettori in sede di approvazione del bilancio consuntivo dovranno anche pubblicare i risultati delle attività oltre che i finanziamenti ottenuti da soggetti pubblici e privati. Altrimenti si rischiano penalità nell'assegnazione dei fondi.

RIENTRO DEI CERVELLI - le università potranno coprire i posti da ordinario e associato o da ricercatore chiamando studiosi «stabilmente impegnati all'estero» anche quelli già impegnati nel Programma ministeriale di rientro dei cervelli. Lo prevede un emendamento votato in commissione. Si potranno anche chiamare «studiosi di chiara fama».

UNIVERSITÀ VIRTUOSE - Almeno il 7% del Fondo di finanziamento ordinario sarà distribuito alle università virtuose per migliorare la qualità della ricerca e dell'offerta formativa.

DIRITTO ALLO STUDIO - Nel decreto ci sono anche 65 milioni per nuovi alloggi e 135 milioni di euro per le borse di studio destinate ai meritevoli.

IL MINISTRO - «Il decreto approvato dal Governo e gli emendamenti approvati dalla Commissione Cultura del Senato sono una vera e propria svolta nel sistema accademico in Italia – ha dichiarato il ministro dell'Istruzione Università e Ricerca Mariastella Gelmini - da vent’anni si parlava di come legare il merito alla carriera dei professori e di come vincolare i finanziamenti all’università in base a parametri che ne valutassero la qualità. Per la prima volta le carriere dei docenti non saranno legate a scatti automatici ma - come previsto dagli emendamenti approvati in commissione - al merito ed alla ricerca effettivamente svolta».

domenica 23 novembre 2008

Scuola: dalla Svezia una lezione di libertà

Di Giovanni Cominelli per ilsussidiario.net

Che il Pd abbia ridotto la questione educativa di questo Paese al “più soldi!” e che abbia condotto una massiccia campagna - o se ne sia fatto condurre - contro “la privatizzazione” della scuola non meraviglia ormai più. Certo, le forze che lo compongono hanno conosciuto una cultura migliore. In fondo, è stato un ministro della sinistra, Luigi Berlinguer, a dare al Paese la legge n. 62 del 2000, che creava la fattispecie delle scuole “paritarie”: scuole private che diventavano “pubbliche”, a determinate condizioni.

Ma oggi la condensazione di statalismo cattolico-democristiano e vetero-socialdemocratico degli eredi del Pci ha prodotto una regressione: l’idea che la libertà di scelta della scuola da parte delle famiglie sia un lusso, che lo Stato non può permettersi di finanziare, se non quando le vacche sono grasse.

Ma che dire di un governo “liberale” (sic!) che riduce le scuole paritarie sulla soglia della chiusura? Si tratta solo di incapacità tecnica di governo di una materia complessa o c’è dell’altro? C’è parecchio altro. Non solo, con tutta evidenza, una misconoscenza basilare della condizione reale del sistema educativo in Italia, non solo un malinteso e fatale continuismo con la filosofia manutentiva, conservatrice e minimalista di Fioroni. C’è una ben solida - ahinoi! - cultura politica nazionale. Secondo questa cultura, che unisce la Destra storica, il Fascismo (il Manuale del fascista del 1937 recitava, a mò di catechismo: «Tutto nello Stato, nulla fuori dello Stato, nulla contro lo Stato»), un certo cattolicesimo politico e la Sinistra storica, la scuola è stata appositamente costruita quale grande apparato ideologico di Stato e tale deve restare. Solo lo Stato conosce autenticamente il destino dei nostri figli e se ne prende cura. Solo lo Stato garantisce piena cittadinanza ed eguaglianza delle opportunità. Solo lo Stato costruisce la nazione. La persona, le famiglie, la società civile sono fomento di disordine, di incontrollabilità, di irrazionalità delle scelte. La libertà di scelta delle famiglie si può solo tollerare illuministicamente, come si fa con le minoranze.

In tutti i Paesi europei, dall’Inghilterra, alla Svezia, all’Olanda, alla Francia compresa, la libertà di scelta delle famiglie è trattata, anche sul piano finanziario, non come un residuo, ma come l’anima del sistema e il motore dell’innovazione dei sistemi statali di educazione. Nel 1992 il nuovo governo di centro-destra svedese ha introdotto la libertà di scelta della scuola. Dopo decenni di rigido centralismo scolastico governato da una politica socialdemocratica ispirata da criteri di uguaglianza e giustizia sociale tipici del welfare state svedese, i bacini d’utenza furono smantellati e le famiglie furono autorizzate e parimenti finanziate a scegliere la scuola nella quale iscrivere i propri figli, statale o privata che fosse.

Nel 1992, solo l’1% degli allievi della scuola primaria e l’1,7% degli studenti della scuola secondaria frequentavano in Svezia una scuola privata. Nel 2008 la proporzione degli studenti nel settore privato è passata al 9% nella scuola primaria e al 17% in quella secondaria. I socialdemocratici, tornati al potere, hanno preso atto pragmaticamente, perché le famiglie hanno scelto, il sistema ha continuato a esprimere ottime performances, la scuola di Stato ha dovuto innovarsi.

Un governo è liberale se aumenta la quota di libertà per le persone, le famiglie, la società civile. Si dirà: c’è la crisi finanziaria, che sta precipitando in crisi economica, produttiva e occupazionale. Appunto. Da dove si pensa di raccogliere le energie del Paese per rimettersi in piedi, se non partendo dalle libere scelte delle persone, dai ragazzi, dalle famiglie?

Università: i comunisti continuano a mentire

Non c'è niente da fare. È più forte di loro: quando non sanno che dire, la loro cultura ed il loro dna gli impone di mentire. Si tratta di una mutazione genetica avvenuta oramai decine di anni or sono, quindi non c'è né meraviglia né stupore a che oggi i comunisti mentano spudoratamente, riuscendo persino a fabbricare leggi diverse da quelle promulgate e commentando le prime e non le seconde a puro uso e consumo della loro propaganda, quella stessa che ha ridotto la scuola italiana com'è oggi (certo il '68 non fu un movimento a matrice cristiana-DC).

Prendiamo ad esempio il nuovo libro in uscita per DeriveApprodi, e pubblicizzato dal quotidiano Liberazione, dal titolo "Manifesto per l'università pubblica", con uno stralcio a firma di Alberto Burgio. Vediamo cosa dice l'esimio:

Per ogni studente universitario lo Stato italiano spende 8.026 dollari contro una media OCSE di 11.512. È inutile che i comunisti continuino la loro fantasiosa battaglia contro i professori della Bocconi (che stanno sopra di loro di qualche migliaio di spanne): quel dato Ocse per l'Italia non è ponderato, cioè mentre per gli altri Paesi si tiene conto della popolazione studentesca attiva, per il Bel Paese si tiene conto della popolazione studentesca totale. Bel modo con i piedi di confrontare le cifre! La realtà è che, se si normalizzano i dati, si scopre che l'Italia spende oltre 15.000 dollari per studente, cioè risulta essere il quarto Paese a livello mondiale.

Il rapporto tra docenti e studenti in Italia è di 1:29, contro una media europea di 1:16,4. Ancora una volta, dati fuffa. Non si tiene conto della popolazione attiva, che è poi quella che frequenta i corsi ed ha rapporti con i professori: normalizzando i dati in tal modo, si scopre che l'Italia ha un rapporto docenti/studenti di 1:9, contro quello della Gran Bretagna di 1:10.

La previsione della possibilità di trasformare (con decisione a maggioranza del senato accademico) le università pubbliche in fondazioni private. È ufficiale, il Burgio non sa cosa sia l'art. 16 della legge 133, perché non lo ha letto e perché forse si fabbrica le leggi in casa prima di commentarle. Comma 1: «La delibera di trasformazione e' adottata dal Senato accademico a maggioranza assoluta ed e' approvata con decreto del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze». Che non è proprio la stessa cosa di mettere all'asta l'università...

I tagli accelerano il processo di privatizzazione dell'università, frammentando il sistema universitario nazionale e cancellando l'università di massa, considerata dalla destra un pericoloso strumento di mobilità sociale. Mi piacerebbe sapere se l'esimio Burgio in quello che scrive ci crede davvero oppure il suo pamphlet è dettato dalle esigenze del suo padrone. Le fondazioni di diritto privato non sono la privatizzazione dell'università, perché si può essere privati senza essere fondazioni, ed essere privati essendo fondazioni: sono due cose completamente differenti, tanto è vero che si può essere pubblici pur essendo fondazioni (vd. il caso dell'Alma Mater di Bologna o quello di Siena o ancora la stessa Fondazione Sapienza), questo grazie ad una legge introdotta dal governo di centrosinistra (ma pensa un po'!). Poi, che l'università non produca mobilità sociale lo sanno anche i sassi: a patto che Burgio conosca il significato di questo concetto, c'è più mobilità sociale nel mondo anglosassone dove le università sono completamente diverse dalle nostre (spesso private e con rette mostruose), che da noi, dove il concetto di tasse uguali per tutti, di università gratis, fa si che i poveri paghino le tasse ai ricchi, e non il contrario. Soltanto l'8% del quintile più povero del Paese accede all'Università, a fronte del 13% degli Stati Uniti, mentre è ben il 23% del quintile più ricco ad accedere: è questo lo status che il Burgio vuole difendere per la sua propaganda politica che oramai non interessa più a nessuno? L'università di massa ha prodotto una massa di ignoranti, dove i meritevoli devono combattere per avere un posto di lavoro, mentre invece dovrebbero avere la strada spianata perché chi sa va avanti, non chi non sa. Il povero articolista ha confuso il concetto di università fatta per chi vuole studiare (non c'è nessun diritto né alcun diritto naturale che preveda che all'università debbano accedere tutti senza che poi i loro risultati vengano controllati da nessuno), con quello di università d'uguglianza della sinistra, un concetto aberrante che ha prodotto i risultati che oramai sono sotto gli occhi di tutti.

Le università-fondazioni continueranno a ricevere soldi pubblici, ma saranno uno snodo imprenditoriale privato e dominio di potentati oligarchici, organicamente legati alla politica ed ai poteri forti del territorio (imprese e banche in primis). I nuovi padroni potranno far valere un potere discrezionale illimitato sulla didattica e sulla ricerca, con grave pregiudizio per tutto ciò che non genera profitti immediati. Si, le truppe demoniache hanno invaso l'universo! Ma per favore... Le università continueranno a funzionare come funzionano oggi, perché ad esse si applicheranno le attuali leggi statali, inoltre non esistono profitti nel mondo universitario in quanto, comma 4: «Non e' ammessa in ogni caso la distribuzione di utili, in qualsiasi forma. Eventuali proventi, rendite o altri utili derivanti dallo svolgimento delle attività previste dagli statuti delle fondazioni universitarie sono destinati interamente al perseguimento degli scopi delle medesime». Secondo il comma 11 la Corte dei Conti continuerà ad esercitare un controllo secondo le modalità previste dalla legge 21 marzo 1958, n. 259. Dunque se qualcuno avesse in mente di entrare nell'università per fare soldi ha capito proprio male. Non sarà certo utilizzando un linguaggio veterocomunista, lo stesso che ha prodotto fenomeni come le Brigate Rosse, che il rosso Burgio riuscirà a convincere le persone dotate di cervello pensante (e non i trinariciuti di sinistra, ovviamente) a credere a ciò che non esiste sulla carta.

Il Burgio poi continua la battaglia comunista contro la meritocrazia, perché lui dice, non si può essere contro il merito dei singoli, pur tuttavia siccome il modo di stabilire il merito non è cristallino (e per definizione non lo sarà mai), il rischio è che la meritocrazia si coniughi con la conservazione di ricchezza e potere. Le ricordiamo bene le battaglie del PCI contro il tentativo berlingueriano (certo sbagliato, ma pur sempre con una giusta idea di fondo) di premiare il merito: per loro, i comunisti, si deve essere tutti uguali, tutti con gli stessi diritti, per cui il titolo di studio preso da tizio in tale luogo ha lo stesso valore dello stesso titolo di studio preso da caio in tale altro luogo dove però ci si fa un mazzo tanto. È la storiella del valore legale della laurea, sbandierata da questi parrucconi come il sogno per cui il figlio di un operaio avrà le stesse opportunità del ricco: è vero esattamente il contrario! Perché il primo per arrivarci avrà studiato con grandi sacrifici, il secondo magari con qualche spintarella, ed entrambi partiranno alla pari, se non fosse per il fatto che il secondo le spintarelle continuerà ad averle, quindi di fatto alla pari non saranno mai. Senza valore legale, ciò che conta sono le capacità, il saper fare, e chi non sa fare, spintarella o no, viene cacciato (come è giusto e sacrosanto che sia).

Ringraziando il cielo, quella macchiolina rossa riconducibile ai comunisti è sempre più piccola, sempre più insignificante. Se la scrivono, se la cantano e se la suonano, ma oramai non sono più in grado di incantare nessuno (anche a Trento sono spariti dalla vita politica locale). E pur tuttavia continuano a fare danni, quindi il controllo e la verifica delle loro menzogne deve essere ferreo, affinché qualche sprovveduto non abbia a cedere nella rete.

martedì 18 novembre 2008

Io, barone 70enne, non me ne vado!

Questa è la storia di un professore ordinario all'università di Perugia, il 70enne prof. Lanfranco Rosati, il quale si è visto recapitare a casa una lettera con la quale il Consiglio di Amministrazione procedeva al suo pensionamento. Perché? Con le ultime disposizioni, si vuole limitare a 70 anni l'età massima di permanenza nella docenza universitaria, favorendo in tal modo (ovvero obbligando) le università a procedere ad un ricambio generazionale più veloce.

Ma il prof. ha protestato: ha fatto ricorso al TAR il quale ha per il momento sospeso il provvedimento. Dalla parte dell'esimio accademico ci sarebbero articoli scientifici tesi a dimostrare che 70 anni sono l'età d'oro della mente: io ero rimasto che, sulla base della produzione scientifica attuale, l'età migliore e più produttiva è quella compresa tra 35-40 anni, ma evidentemente mi sbaglio. O forse no... La principale preoccupazione del Rosati non sono soltanto, o non tanto, i suoi alunni (tanto prima o poi in pensione ci dovrà andare quindi qualcuno che si vedrà con i corsi a metà ci sarà sempre: chi ha frequentato il corso di Storia Romana del prof. A. Giardina alla Sapienza dopo un anno si è visto il prof. trasferirsi a Firenze e quindi costretto a dare l'esame con il suo sostituto, il prof. E. Lo Cascio: io sono uno di questi), ma soprattutto dottorandi e ricercatori ai quali, ci tiene a metterlo in chiaro, "ho cercato un bando di concorso mettendoli nella condizione di vincerlo con anticipazioni ed una buona presentazione del candidato ai commissari". Un barone che dispensa raccomandazioni, ehm pardon, consigli? Ma no, certo che no, i suoi alunni erano di fatto i migliori, visto che il Rosati si appella (ergo si paragona) a mostri sacri della scienza come Norberto Bobbio, Margherita Hack e Rita Levi Montalcini (quella che ci seppellisce a tutti)!

Ma non solo: infatti anche la figlia era la migliore se, come pare, nel marzo scorso ha vinto un posto come ricercatore in pedagogia generale e sociale proprio in quel di Perugia dopo che, per sua "fortuna", il candidato avversario si è magicamente dissolto al momento dell'orale lasciandola sola soletta a competere per l'unico posto disponibile... E come potrà fare la dolce Agnese senza l'aiuto di papà Lanfranco?

«Non me ne vado, se lo scordino, io dall'università non me ne vado».

Fonte: Alessandra Cristofani per La Stampa del 17/11/08.

venerdì 14 novembre 2008

Prof e ricercatori: ecco i nuovi stipendi

Continua la battaglia per la meritocrazia all'interno del mondo universitario che, vale la pena ricordarlo, essendo la più alta forma di istituzione culturale e formando i dirigenti e gli scienziati di domani, non può essere in mano a personaggi corrotti e/o corruttori. Alcune idee legate alla retribuzione dei docenti saranno inserite nel disegno di legge che la Ministro Gelmini presenterà alle parti in causa nei prossimi giorni.

Dunque, insieme alla riforma del concorsi per l'accesso alla docenza, inevitabile che ci sia anche un ritocco sul modo di retribuire i docenti: inutile affannarsi per far entrare i migliori se poi ridiventano tutti uguali. Allora ecco la soluzione: via gli scatti di anzianità, parte dello stipendio sarà legata al merito ed alla produzione scientifica, valutata da commissioni super partes sulla base di parametri oggettivi.

Quali sono i rischi? Il primo rischio è che la valutazione sia astratta: chi pubblica di più non è migliore di chi pubblica di meno; il criterio bibliometrico tuttavia contiene in sé già parte della risposta, in quanto si presume che un articolo maggiormente citato rispetto ad un altro sia più innovatore: in ogni caso è un problema che può essere corretto in quanto, come detto, se sono le università stesse a dividere i fondi, sapranno bene come valutare al meglio la produzione scientifica. L'altro punto critico è la modalità di ripartizione della quota base: in Europa non c'è una modalità univoca, si va dalla Francia nella quale saranno le università e non più lo Stato a ripartire le quote sulla base del valore accademico (la riforma è attualmente in discussione), mentre in Spagna ed in Germania la parte fissa è legata all'inflazione.

In Italia? Si vuole introdurre il sistema per cui, accanto ad una quota base che cresce nel tempo (legata all'anzianità, all'inflazione, a quel che si vuole) ed un'altra legata al lavoro aggiuntivo, sia di didattica che di ricerca. Decleva, Presidente della CRUI, si è dimostrato aperto verso questo disegno. Dunque premiare e favorire maggior impegno, efficienza e merito (che poi costituiscono la base deontologica del docente universitario), punendo al contempo indolenze e sprechi. Il sistema tuttavia, se non è ancorato ad una libertà di stipendio da parte della stessa università (a mio modo di vedere) rischia di saltare lo stesso. Si potrà rispondere: così si rischia di creare docenti di serie A e di serie B, con le grandi università che avranno più fondi rispetto alle piccole.

La risposta più semplice a questa obiezione è che questo sistema già esiste nel mondo del lavoro: c'è chi guadagna di più perché lavora in un'azienda grande o che va molto bene, e chi guadagna di meno perché si trova in un'azienda in difficoltà. È la natura stessa del mercato e l'unico modo per correggerla è legare lo stipendio all'andamento dell'azienda, che è esattamente ciò che hanno firmato i sindacati confederali negli ultimi tempi (a parte la CGIL, ma la sua assenza è il principale indizio che si persegue la strada giusta). Dunque, le università grandi avranno possibilità di liberare la parte dello stipendio che pertiene alla produzione e saranno loro a valutare se tale operazione conviene oppure no. Le piccole università punteranno tutto sull'efficienza, i servizi offerti ed il merito, cercando dunque di attrarre un maggior numero di studenti. Chi fallisce o premia in modo inutile, si vedrà tagliare i fondi dallo Stato (i finanziamenti statali continueranno ad esistere come prima), mentre le università virtuose se li vedranno aumentare: chi può sapere oggi se una piccola università un giorno non diventerà un polo importante (ed il contrario!)?

Ogni sistema funziona con luci ed ombre, non esiste il sistema perfetto, ma soltanto quello migliore o più idoneo in una data situazione. Poi si può discutere anche se sia giusto liberalizzare i contratti dei docenti, cioè se l'università debba ancora assumere per concorso oppure no, ed infine se sia ancora necessario avere un sistema nel quale tutte le università debbano fare sia ricerca sia didattica.

Intanto, a sostenere la riforma del sistema universitario è un giornale non sospetto: il The Economist, acerrimo avversario del Premier Berlusconi e del suo Governo, il quale definisce l'università italiana «corrotta, inefficiente e mal gestita».

martedì 11 novembre 2008

Atenei: prima dov'era la sinistra?

Di Paolo Ercolani* per lastampa.it

Caro direttore, non posso. Io, ricercatore (precario) di filosofia politica, che da anni frequenta l’Università italiana e che si riconosce nei valori di una sinistra moderna, non riesco proprio ad aderire acriticamente alle manifestazioni contro l’ancora inesistente decreto Gelmini. Non riesco a difendere, di fatto, lo statu quo di un’università che da anni fa entrare gente fra il patetico e il grottesco, gente che non studia più (ammesso che abbia mai cominciato) e che nulla ha da dare a studenti che, sempre più impreparati, comunque ottengono il loro bel voto se ascoltano annuendo la lezioncina del prof., quasi sempre messa anche per iscritto in un libricino pubblicato da qualche minuscola casa editrice a pagamento. La Gelmini sbaglia se prevederà tagli indiscriminati, perché finirà con l’avvantaggiare i più ricchi e privilegiati, ma la sinistra dov’era in tutti questi anni in cui nelle università entravano rigorosamente i figli di e i raccomandati, da dove il vincitore del concorso veniva stabilito prima ancora di bandire il concorso e sulla base di accordi fra i vari ordinari, non su quella di un valore scientifico dello studioso e della sua produzione?

Dalla destra ci si possono e forse devono aspettare misure pensate con il criterio della gerarchia sociale, ma dove sta scritto che dalla sinistra ci si debba aspettare il nulla e il silenzio? Perché tutti si sono svegliati solo ora che il governo sembra voler affrontare una situazione che non può più andare avanti in questo modo, fornendo inevitabilmente l’immagine di una sinistra sempre al rimorchio d’idee d’altri, prontissima ed efficace a contestarle ma tristemente incapace di proporne di proprie a tempo debito? Facendo prosperare questo sistema di «baronaggio onnipotente», abbiamo lasciato che l’università, luogo cardine della cultura di un Paese, si impoverisse e degradasse fra docenti improbabili e sconosciuti alla comunità internazionale (ma ben conosciuti ai piccoli potentati locali e territoriali), e studenti che «seduti dall’altro capo della scrivania, in un italiano stentato, smozzicano frasi per lo più sconnesse, ciancicano frattaglie di nozioni irrancidite, rimasticano rigurgiti di conoscenze mal digerite» (Antonio Scurati, La Stampa del 1° novembre).

Contro tutto questo la sinistra italiana non ha fatto pressoché nulla, creando di fatto il peggiore dei sistemi fondati sulla «gerarchia» e sul «privilegio», perché se il sapere degrada presso la generalità degli studenti, a ottenere successo comunque nella società saranno quelli provenienti dalle famiglie agiate, così come a potersi permettere la carriera universitaria saranno soltanto quelli sempre con famiglia ricca alle spalle. Un paese in cui la «famiglia» diventa il fattore più importante di avanzamento dei saperi e delle carriere è inevitabilmente condannato al degrado e all’emarginazione internazionale. Ecco perché non ce la faccio a scendere in piazza con questi studenti (alcuni dei quali anche i miei), in maniera acritica e senza che un tormento interiore s’impossessi del mio animo, senza potergli dire le cose che sto scrivendo qui. Così come non ce la faccio a manifestare a fianco di quei tanti «incardinati» che hanno trovato posto nell’università grazie alle logiche grette e degradanti di cui abbiamo parlato, e che oggi vorrebbero solo che si potesse continuare a vivere come se le vacche fossero sempre grasse e le botti piene.

Io accuso la sinistra italiana di prolungata latitanza, accuso chi ha gestito le università finora d’irresponsabilità e spirito di casta, accuso un Paese in cui la cultura sta diventando roba noiosa, per reietti da ogni reality show che si rispetti, e accuso anche me stesso di aver avuto più di un timore a firmare questa lettera. Accuse ben più gravi di quelle comunque sacrosante che mi verrebbero da rivolgere a un giovane e improvvisato ministro che agisce evidentemente sotto l’«egìda» di qualcun altro...

*ricercatore all’Università di Urbino

lunedì 10 novembre 2008

Basta concorsi truffa e via alla meritocrazia

Di Stefano Zecchi per ilgiornale.it

Era solo una questione di buon senso, e quando c’è la volontà, generalmente le cose di buon senso si comprendono facilmente. Il ministro Gelmini interviene con la necessaria tempestività per affrontare quattro questioni decisive, poi ci sarà un po’ più di tempo per riflettere sul modo di cambiare l’istruzione universitaria. Incominciamo con la questione dei tagli, che ha scatenato le proteste di studenti e professori. Se i finanziamenti che l’università riceve dallo Stato fossero determinanti per la qualità complessiva della ricerca accademica, tagliarli significherebbe danneggiare tutti i livelli del lavoro universitario. In queste ultime settimane il nostro quotidiano ha avuto modo di dimostrare ampiamente quale sperpero si sia fatto con il denaro pubblico negli atenei italiani. Il decreto del ministro taglierà i finanziamenti là dove c’è cattiva gestione amministrativa e dove è scadente la qualità della ricerca. Questa decisione è fondamentale perché introduce un metodo, cioè la competitività tra le università: sia nella gestione, sia sui risultati della ricerca e dell’istruzione.

Per chi non lo sapesse, la Crui, cioè l’organismo che unisce tutti i rettori dell’università, ha agito in queste settimane di crisi come un sindacato che avanza richieste al ministro. Fin qui niente di strano: quello che è inammissibile è che tali richieste (prevalentemente economiche) sono state fatte come se l’università italiana fosse una realtà unica, sindacalmente rappresentabile. Esistono invece differenze enormi tra le singole università, che riflettono gradi di qualità didattica e di ricerca enormi. Ci sono università che svolgono il proprio lavoro decentemente, altre in modo disastroso. Ora la decisione del ministro di diversificare i finanziamenti, oltre a rompere il fronte sindacale della Crui, introduce una differenziazione di merito tra i singoli atenei, secondo l’elementare principio che i bravi vengano premiati, gli altri no.

Altro punto del decreto Gelmini: borse di studio ai giovani. Ottima decisione, ma sarà importante capire quali saranno i criteri di assegnazione delle borse: troppe volte la valutazione del reddito familiare non corrisponde alle reali esigenze economiche dello studente. Si faccia in modo che a coloro che chiedono la borsa di studio scatti contemporaneamente l’accertamento fiscale. In ogni caso, la destinazione di una quota dei finanziamenti per borse di studio dimostra la meritoria attenzione del governo al ruolo insostituibile dell’istruzione pubblica. Terzo punto del decreto Gelmini: turn over. Per ogni professore che andrà in pensione saranno assunti due ricercatori. Anche in questo caso il nostro giornale aveva dimostrato nelle scorse settimane come il personale docente delle università italiane sia il più vecchio d’Europa. Il decreto legge porta a un reale, immediato svecchiamento delle accademie.

Ultimo punto, che lascio alla fine perché è il più importante. Avevo sollevato su queste pagine senza mezzi termini come i concorsi universitari, cioè il sistema di reclutamento dei docenti, siano vere e proprie truffe. Avevo anche chiesto al ministro di sospendere questi concorsi che, torno a sottolineare, in modo truccato faranno entrare 4.500 docenti, bloccando il ricambio degli insegnanti d’università per i prossimi anni. Il ministro non li ha sospesi, però ha modificato le regole per la formazione delle commissioni giudicatrici. Anziché per elezione, saranno costituite per sorteggio. Questa norma sta già scombussolando le carte delle baronie del potere accademico che da tempo avevano deciso come pilotare le elezioni, chi eleggere e quali candidati far vincere.

Quello del ministro è un primo passo: il cammino da fare per moralizzare questo aspetto essenziale della vita accademica è ancora lungo, però è un passo che fa intendere che la misura è ormai colma, che certa indecenza non è più tollerabile, che d’ora in avanti la musica dovrà cambiare.

C’è da augurarsi che il prossimo disegno di legge sull’università sia orientato in un senso molto preciso: le università non sono agenzie di collocamento del personale attraverso metodi clientelari e nepotistici; le università non sono tutte uguali: vanno premiate quelle che producono qualità; le università pubbliche devono poter competere con quelle private, anche attraverso il sostegno di giovani meritevoli.

Lobby dei concorsi: così ti imbelletto il prof compiacente

Una "lobby potentissima": è questo ciò che hanno individuato le forze di polizia. Un gruppo di potere che da almeno 15 anni deciderebbe a tavolino il bello ed il cattivo tempo dei concorsi universitari in Economia agraria. Utilizzo il condizionale perché, a causa di un presunto vuoto legislativo, la corte ha deciso di archiviare il tutto.

Il principale responsabile di questi trucchi sarebbe il prof. Mario Prestamburgo, ordinario di Economia agraria in quel di Trieste, poi anche eletto parlamentare dell'Ulivo, il quale, con una lettera strettamente personale, inviò a sette colleghi indicazioni per filo e per segno su come schedare i professori in sede di valutazione. Nell'arco di questi anni sarebbero state create vere e proprie tabelle di affidabilità del commissario, utilizzate ancora in tempi recenti: tutto ciò che contava in queste tabelle era la compiacenza dello stesso, nessun cenno si trova infatti riguardo a produzione scientifica. Inutile dire che i candidati erano scelti più per "simpatia" che altro.

Fonte: Franca Selvatici per La Repubblica.

Abbiamo poi il caso dell'ex Rettore dell'università statale di Foggia, l'ex Magnifico Antonio Muscio, il quale prima di lasciare l'incarico il 31 ottobre al suo successore Giuliano Volpe, ha voluto fare un regalo alla Facoltà di Agraria, dove era ordinario di Zootecnica speciale: suo figlio. Già, proprio così, perché risulta che il 30 ottobre, cioè esattamente un giorno prima di lasciare l'incarico in via definitiva, ha firmato il decreto rettorale con il quale assegna l'incarico di ricercatore in Economia applicata al figlio Alessandro. I commissari ovviamente non hanno avuto nulla da eccepire nel ritenerlo migliore dei suoi colleghi partecipanti al concorso: tra l'altro a suo carico risultano ben 6 pubblicazioni (di cui 4 in Inghilterra), ed una specializzazione nel Sussex. Finalmente un esempio nel quale, nonostante la parentela, si favorisce il merito? Macché! In Italia, fino al 30 ottobre 2008, non risultava nessun ricercatore in Economia applicata presso qualsiasi Facoltà di Agraria: il prof. Muscio ha voluto colmare questa lacuna...

D'altronde, il prof. Muscio è il padre-padrone dell'università: l'ha creata, l'ha diretta e l'ha fatta crescere. Nell'Ateneo tra l'altro sua figlia Rossana è dirigente del personale tecnico amministrativo, incarico già ricoperto dalla madre e moglie del Muscio. Ovviamente parenti stretti ma anche parenti acquisiti: ivi lavorano anche il marito di Rossana nonché la moglie di Alessandro Muscio fresco ricercatore.

Il mio stimato "collega" nuovo rettore Giuliano Volpe (collega perché siamo entrambi archeologi, non per altro!) ha già detto di non poter fare nulla per questa situazione che lui eredita ma che ha già varato nuove norme che intendano limitare queste occasioni, sebbene l'iniziale testo sia stato in qualche modo "accomodato" tale da renderlo meno incisivo di quanto non si sia fatto a Bari, la capitale nazionale del nepotismo accademico.

Fonte: Giuliano Foschini per La Repubblica.

sabato 8 novembre 2008

Università: il testo del decreto

Sul giornale Il Sole 24 Ore è stato pubblicato il testo del decreto che il Governo ha licenziato nel Consiglio dei Ministri del 06/11/08. Come segnalato, il testo potrebbe subire modificazioni prima della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale (comunque improbabili).

In particolare il decreto-legge contiene disposizioni finalizzate a:

  1. favorire il reclutamento di giovani ricercatori nelle Università;
  2. incentivare con una quota significativa del finanziamento statale (7%) le Università che, sulla base di parametri oggettivi di valutazione, favoriscono la ricerca ed il merito;
  3. prevedere parametri oggettivi per la valutazione dei professori e dei ricercatori e per la formazione delle Commissioni di valutazione;
  4. stanziare nuove risorse per favorire la realizzazione di residenze universitarie e consentire a tutti i capaci e meritevoli aventi diritto di usufruire delle borse di studio.

In particolare all'articolo 1:

  • il comma 1 impedisce alle università con i conti in rosso di bandire concorsi per il reclutamento di personale docente ad ogni livello
  • il comma 2 stabilisce inoltre che dette università siano escluse dalla ripartizione dei fondi relativi agli anni 2008-2009
  • il comma 3 modifica il comma 13 dell'art. 66 della legge 133 ad esclusivo vantaggio dell'assunzione di nuovi ricercatori, sia a tempo determinato che indeterminato
  • i commi 4-8 contengono disposizioni relative alle commissioni impegnate negli attuali concorsi

L'articolo 2 è dedicato alla valutazione del sistema universitario: stabilisce che non meno del 7% del FFO (legge 537/1993) e del FFS (legge 244/2007) sia ripartito per meriti di ricerca scientifica e processi formativi secondo criteri e parametri individuati dal Cnvsu e dal Civr: si tratta di circa 500 milioni di euro ripartiti secondo modalità meritocratiche, evitando in tal modo quel taglio a pioggia che sarebbe stato moralmente deprecabile.

L'articolo 3 stabilisce che il fondo per il diritto allo studio sia aumentato di 65 milioni di euro, mentre il fondo per le borse di studio sia aumentato di 135 milioni di euro, per un totale di +200 milioni di euro rispetto a quanto previsto per il 2009.

Per quanto riguarda le reazioni sostanzialmente positive a questo decreto, in particolare il giudizio della CRUI, si può visitare la rassegna stampa della Conferenza per il 07/11/08.

Leggere anche un articolo di Massimo Piattelli Parlmarini per Il Corriere della Sera.

giovedì 6 novembre 2008

Università, il Governo vara il decreto e prepara il ddl1

I tre articoli qui di seguito possono essere recuperati nella rassegna stampa.

Università, tagli ridotti subito, di Alessia Tripodi per Il Sole 24 Ore

Bloccare i concorsi farsa, di Vincenzo La Manna per il Giornale

Blocco delle assunzioni per gli atenei con i conti in rosso, per Il Tempo

Di Giulio Benedetti per corriere.it

Niente chiusura di mini-scuole per un anno. Riprende il dialogo—è intervenuto Berlusconi per rendere il clima più sereno —tra governo e conferenza delle regioni. Clima più disteso anche sull’università. Oggi la Gelmini dovrebbe portare al Consiglio dei ministri un decreto su pochi punti ritenuti urgenti e quindi da anticipare rispetto alla riforma complessiva che invece sarà contenuta in un disegno di legge. I contenuti sono stati illustrati dal ministro al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che continua a ritenere possibile un accordo ampio sull’università, purché il tema sia affrontato con ragionevolezza.

Gli atenei spendaccioni, con i bilanci in rosso (20 su 75)—questi i punti del decreto — non potranno bandire concorsi. Deroga parziale al blocco del turnover previsto dalla legge 133 dello scorso 6 agosto per l’assunzione dei giovani ricercatori. Distribuzione del fondo statale di finanziamento in ragione non solo del numero degli iscritti — criterio che induce gli atenei ad attirare quanti più studenti anche con una moltiplicazione di corsi e diminuendo il rigore—ma in base a criteri di produttività. Previsto anche un intervento sui concorsi per docenti, forse anche per quelli già banditi. Tra le ipotesi una modifica nei meccanismi della selezione per i professori associati e ordinari: si introdurrebbe un solo vincitore eliminando la doppia idoneità, ritenuta fonte di possibili accordi sottobanco. Un provvedimento che non dovrebbe dispiacere all’opposizione. L’altra ipotesi, più complicata, prevede la sospensione delle procedure in attesa di approvare una riforma con un ddl. Resterebbero i concorsi per i ricercatori, utili per lo svecchiamento dell’università. E potrebbero essere stanziati anche fondi per alloggi e borse di studio per gli studenti più meritevoli.

Riprende intanto il dialogo tra ministro il Gelmini e le Regioni. E’ stato Berlusconi a sbloccare la situazione. Il governo ha infatti modificato l'articolo 3 del dl 154 tenendo conto delle osservazioni delle autonomie. La parte che prevedeva il commissariamento in caso di mancata soppressione, con trasferimento dei ragazzi nelle sedi più grandi, degli istituti scolastici con meno di 50 alunni è stata cancellata. Le regioni avevano deciso di non incontrare più il ministro fintanto che fosse rimasta nel decreto la parola «commissariamento ». La modifica del governo fa slittare l’operazione di ridimensionamento della rete scolastica (chiusure sedi troppo piccole, accorpamenti) al 2010-2011. «Ora — è il commento di Vasco Errani, presidente della Conferenza delle Regioni — è necessario aprire un tavolo per discutere concretamente e senza forzature unilaterali della riorganizzazione dei servizi scolastici, fermo restando il carattere irrinunciabile del diritto al studio». «Un risultato importante» anche per Leonardo Domenici, presidente dell’Anci, soprattutto per i piccoli comuni, montani e non.

Un satirico commento di P. Battista sul mondo universitario: "Elogio dell'inutilità", per Corriere della Sera Magazine

martedì 4 novembre 2008

FFO: come ti butto via il denaro pubblico

Riprendo questo bel post via destralab.it

Qui da pagina 58 a pagina 66 del Libro verde sulla spesa pubblica del Ministero dell’Economia e delle Finanze, le pagine dedicate all’Università, che forse mostreranno più chiaramente (… forse) perché tanti tra professori e osservatori pensano che sia ineludibile intervenire sul problema in modo concreto e perché si definiscono pannicelli caldi le semplici affermazioni generali di principi.

Ci sono delle belle tabelline sulla distribuzione del FFO alle università italiane secondo le leggi e i decreti succedutisi negli anni, dove si evince chiaramente che le università meno virtuose vengono incredibilmente “premiate” e quelle virtuose incredibilmente “penalizzate” e dove si può “notare” anche cosa ha significato e a quali distorsioni ha portato il fatto che lo stato ha fino ad oggi finanziato gli atenei sulla base di un criterio di “spesa storica”.

Libro Bianco scritto e pubblicato, tra l’altro, poco prima dell’emanazione del Decreto criteri di ripartizione del Fondo di finanziamento ordinario (FFO) delle Università per l’anno 2007 da parte del Ministro Mussi, che ha portato unanimemente (ne accenna anche Ichino nel post precedente e Ainis oggi) a questi “sensibili” miglioramenti:

Due soli dati per chiarire le dimensioni: nel 2008 (decreto ministro Mussi) la quota percentuale di FFO assegnata sulla base dei “risultati dei processi formativi e dell’attività di ricerca scientifica” è stata 2.2%, e nel 2007 0.58%. Il criterio della spesa storica, attraverso cui sono stati sostanzialmente ripartiti i finanziamenti, è pessimo non solo perché non ha nulla a che vedere con il merito, comunque valutato, ma perché offre continua copertura a qualunque politica o a qualunque errore di gestione delle sedi.

Le Università che alla data di chiusura del 2006, secondo quanto si può leggere ancora nel Libro Bianco (vedere la Tabella 2.20), nonostante l’esistenza fin dal 1998 di un vincolo relativo alla quota massima del 90% delle spese fisse per il personale di ruolo sul FFO, peraltro attenuato con un metodo di calcolo meno stringente a partire dal 2004, lo avevano “tranquillamente” superato, erano:

Bari 95,8%, Cagliari 92,6%, Cassino 90,1%, Ferrara 90,0%, Firenze 99,4%, Genova 92,4, L’aquila 93,7%, Messina 91,0%, Napoli Federico II 96,0%, Seconda Università di Napoli 98,8%, L’Orientale di Napoli 96,7% Palermo 91,1%, Pavia 94,3%, Pisa 96,9%, Roma La Sapienza 94,6%, Siena 101,1% Trieste 95,7%, Udine 90,9%, Ca Foscari di Venezia 90,8%. Qua altri dati più recenti.

Nella tabella 2.21 si può controllare, invece, la ripartizione del FFO assegnato, che vede, per esempio, Messina con un FFO assegnato del 2,63%, un teorico da modello 2006 da assegnare del 1,68% e un conseguente sovradimensionamento del 36,2% e Milano, che era invece riuscita a stare sotto il 90% (89,1%) con un sottodimensionamento dei fondi assegnati del 9,2%.

Qua invece andarsi a controllare quali sono le Università che hanno bandito gli ultimi concorsi nonostante tutto questo. E forse potrebbe diventare difficile, per chiunque, non domandarsi, come si fa qui, ma con quali risorse e sulla base di quali piani di sviluppo sono stati deliberati dalle sedi questi bandi? E questa mole di bandi è compatibile nei singoli atenei con il pieno turn over dei docenti? E non trovare tanto strano, rispondere che se non lo è, le risorse liberate dalle cessazioni del prossimo futuro saranno impegnate per promozioni di carriera.

Mentre oggi Michele Ainis, Atenei in tilt senz’anima e senza soldi. Sprechi, gigantismo, inefficienza, lassismo etico: all’università serve una cura, dopo aver fatto un’impietosa analisi dell’esistente, e aver affermato:

Ma non dipende solo dal rubinetto della spesa. Anzi: la sua causa più profonda sta nella logica che pervade il sistema, dove il merito è diventato carta straccia, insieme al senso della legalità.

[...] D’altronde tutto il sistema di finanziamento pubblico verso gli atenei è ben poco orientato al merito, al sostegno dei comportamenti più virtuosi nella ricerca e nell’insegnamento.[...] Se la superficie dell’oceano è piatta, sui fondali nuotano invece pesci d’ogni razza. Durante gli Anni Ottanta del secolo passato in Italia venivano impartite oltre 10 mila discipline accademiche; nel frattempo questa cifra è quantomeno raddoppiata. D’altronde tutta l’università si è via via gonfiata come un panettone, dopo il 3+2 e le altre riforme varate dal 1997 in poi. C’erano allora 41 atenei; nel 2008 sono diventati 95, fra pubblici e privati. Ma se si contano anche le sedi distaccate (ce n’è una sotto ogni campanile, da Tempio Pausania con 5 studenti immatricolati a Petralia Sottana che ne ha 6), il totale fa 338. Da qui la proliferazione delle facoltà, sicché ne abbiamo aperte per esempio 14 di Veterinaria, più di quante ne sommino tutte insieme Francia, Germania, Austria, Belgio, Grecia e Danimarca. Da qui, e soprattutto, la moltiplicazione dei corsi di laurea: 5.517 nel 2007, quando erano 2.444 nel 2000. Fra le new entries, «Gestione delle imprese di pesca» (università del Molise), «Scienze della mediazione linguistica per traduttori dialoghisti cinetelevisivi» (Torino), «Scienze del fiore e del verde» (Pavia), «Scienza dell’allevamento, dell’igiene e del benessere del cane e del gatto» (Bari).

Insomma sprechi, gigantismo, inefficienza, parcellizzazione dei saperi (gli iperspecialisti che sanno tutto su niente, e perciò niente su tutto), lassismo etico, mortificazione delle competenze, sia sul versante dei docenti che su quello dei discenti: all’università serve una cura da cavallo.

Propone una cura con “sottrazione”, anzi con doppia sottrazione: in primo luogo, via il valore legale della laurea e in secondo luogo, via il valore legale della cattedra.

La prima [...] soluzione non particolarmente originale (ne parlava già, mezzo secolo addietro, Luigi Einaudi), ma rivoluzionaria nei suoi effetti potenziali. Perché porrebbe le università in competizione fra di loro (vale di più la laurea dell’ateneo migliore), e perché non c’è efficienza senza concorrenza.

La seconda [...] Perché in Italia sono bassi gli stipendi dei ricercatori, al primo gradino della scala; lo sono quelli degli studiosi più brillanti, che negli Usa – attraverso contratti individuali e fondi di start-up – talvolta superano un milione di dollari; ma sempre negli Usa il rapporto fra lo stipendio medio degli ordinari e degli assistenti è di 1,5 a 1, mentre qui lo stipendio di un ordinario a fine carriera pesa 4 volte e mezzo la busta paga dei neoricercatori. È il paradosso d’un sistema il quale – legando la retribuzione dei professori esclusivamente alla loro anzianità di servizio – non sa essere né egualitario né meritocratico, tanto da attirarsi la censura dell’Ocse (Rapporto Going for Growth, 2007); sicché c’è bisogno di rivoltarlo come un calzino usato.

E qui “ordinaria” cronaca siciliana, non di nera, ma accademica. Università di Messina: indagata la moglie del Rettore e Ateneo messinese nella bufera: il rettore a giudizio per abuso d’ufficio, 25 gli indagati. Ne fa un bel pezzo di “colore” oggi il solito Stella.

Troppo “qualunquista” chiedersi, qualche volta, dove stavano prima del 2008, i signori professori e i signori Rettori che oggi fanno le barricate e parlano di merito e cultura che si vogliono distruggere? Ma di cosa stiamo parlando?

p.s.: Ricordando, per non essere fraintesa, che questa non vuole essere assolutamente una generalizzazione e che ad oggi, un punto su cui i consigli di ateneo più responsabili e “virtuosi” (e ce ne sono ovviamente diversi) stanno facendo pressione è proprio quello di orientare in senso meritocratico la distribuzione dei tagli. E non solo.

update: Il corriere oggi (2 novembre) ha pubblicato questo: Università, i conti in rosso. Con due grafici che contengono dati aggiornati.

lunedì 3 novembre 2008

L'Ateneo sotto inchiesta pensa all'arredo

Di Gian Antonio Stella per corriere.it

Non è vero che non ci sono soldi per la ricerca. L' Università di Messina, ad esempio, una ricerca la sta facendo: cerca un pittore che per 80mila euro dipinga un quadro per l' Aula Magna di ingegneria. Direte: ma come, una spesa così insensata in questi tempi di vacche magre? Esatto. Dicono sia in-dis-pen-sa-bi-le. Certo, per arredare la parete della grande sala non potevano scegliere momento peggiore. Da una parte, infatti, divampa la polemica sui tagli decisi da Mariastella Gelmini, denunciati come la scelta scellerata di lesinare la goccia d' acqua agli assetati dalle gole riarse. Dall' altra il rettore dell' Ateneo, Francesco Tomasello, è stato appena rinviato a giudizio con la moglie Melitta Grasso (lei pure dirigente dell' Università) e altri 25 professori, ricercatori e funzionari vari (altri sette imputati hanno chiesto il rito abbreviato) per due scandali. Il primo: la gestione assai «controversa», diciamo così, di tre milioni di euro di fondi regionali destinati alla ricerca di un progetto scientifico «Lipin». Il secondo: un concorso taroccato. Scoppiato quando un docente aveva denunciato di aver subito pressioni per addomesticare la gara per un posto di professore associato che doveva a tutti i costi andare a Francesco Macrì, figlio dell' allora preside di Veterinaria Battesimo Consolato Macrì, che nelle intercettazioni viene chiamato «BatMac». Non bastasse, proprio in questi giorni L' Espresso ha rivelato che la moglie del rettore, il quale l' anno scorso era stato sospeso per due mesi dalla carica nell' ambito di una «inchiesta su delitti, appalti e clan», sarebbe al centro di un' altra indagine sulla fornitura di pasti del Policlinico e la gestione dei servizi di vigilanza. Servizi che oggi, grazie all' intervento del commissario straordinario, costano 300mila euro ma prima della svolta erano stati assegnati alla società «Il Detective» (unica partecipante alla gara d' appalto!) per un milione e 770mila: sei volte di più. Non bastasse ancora, la città peloritana è scossa da «boatos» secondo i quali ognuno degli 86 nuovi posti all' Università, banditi con 75 concorsi, sarebbe stato «cucito come un vestitino» addosso a 86 prescelti. Sia chiaro: l' ateneo messinese non è l' unico a spendere i soldi in maniera «bizzarra» dando ragione ai rettori più seri che inutilmente invocano da anni che la distribuzione dei fondi e più ancora dei tagli non sia fatta così, a casaccio, ma tenga conto delle enormi differenze tra le università sobrie e quelle spendaccione, quelle virtuose e quelle «canaglia». I casi sconcertanti sono infiniti. Con l' aria che tira in questi anni, ad esempio, era proprio indispensabile all' università di Salerno (dove ogni stanza e ogni bagno del campus è stata tinteggiata con un colore differente) la costruzione del «Chiostro della Pace» di Ettore Sottsass e Enzo Cucchi voluto per offrire ai giovani un luogo «dove riflettere sul senso della vita» e irrispettosamente ribattezzato «il lavandino» per le mattonelle di ceramica blu? È fondamentale, a Bari, mantenere tutt' ora a cura dell' ateneo la darsena del Cus, il centro universitario sportivo, dove fino a ieri decine di docenti ormeggiavano le barche senza tirar fuori un cent? Vi pare possibile che un porticciolo vicino al centro della città sia stato fino all' arrivo del nuovo rettore offerto per 16 anni ai baroni senza che nessuno si ricordasse di chieder loro di pagare la quota («omaggi a personalità influenti...», ammise il presidente) col risultato che siccome non fu mai mandata una richiesta è oggi impossibile pretendere gli arretrati? Chi li restituirà, i tre o quattrocentomila euro di crediti mai riscossi? E l' ex rettore di Teramo Luciano Russi, poi trasferitosi a Roma, doveva proprio spendere 93mila euro per comprare una Mercedes S320 con tivù al plasma anteriore e posteriore, fax, business consolle e «sound system Bose» e 303mila per rifare l' arredamento del suo ufficio? Certe voci resteranno indimenticabili: 54.391 euro per «librerie e boiserie in noce massello con appliques alle quattro pareti», 8.448 per «due divani in pelle modello Chesterfield tre posti», 6.500 per «tappeto Isphahan lana/seta»... Come poteva, con quelle spese, trovare altri soldi per la ricerca? E come possono accettare, i rettori «risparmiosi» attenti al centesimo, di essere messi sullo stesso piano, nei tagli, di chi ha speso 33.259 euro (quanto guadagnano in un anno tre dei precari pisani che hanno messo a punto un supertelescopio messo in orbita dalla Nasa) per «rivestimento soffitto in noce massello cassonato»? Ma torniamo a Messina. Dove lo stesso bando di concorso per «la scelta, l' esecuzione e l' acquisto» del quadro da 80mila euro è un capolavoro. Dopo avere precisato che «l' opera dovrà essere ispirata al tragico evento del terremoto di Messina» e «andrà collocata nell' Aula Magna della Facoltà di Ingegneria, sulla parete cattedra di m. 7,50x3,30 e sulle due pareti contigue, ciascuna di m. 2,00 circa x 3,30», il documento precisa infatti che «al concorso possono partecipare tutti gli artisti italiani e stranieri in possesso della residenza o del domicilio in Italia, che godano dei diritti civili e politici nello Stato di appartenenza». Insomma, se c' è un Picasso o un Gauguin che abbia voglia di cimentarsi, si astenga: la nostra università, oltre ai ricercatori stranieri, non vuole neppure pittori che non siano indigeni. E non è finita. Tra le meravigliose scemenze burocratiche, c' è infatti che «il plico deve essere sigillato con ceralacca e controfirmato sui lembi di chiusura e deve recare all' esterno, oltre all' intestazione del mittente (nome e cognome dell' artista) e all' indirizzo dello stesso, la dicitura "Bando di concorso per la scelta, l' esecuzione e l' acquisto di un' opera d' arte pittorica da collocare nell' Aula Magna della Facoltà di Ingegneria in Contrada Papardo di Messina"». Il plico deve contenere al suo interno la busta con la dicitura «Documentazione» e un contenitore con la dicitura «Bozzetto» entrambi «controfirmati sui lembi di chiusura...». Insomma: viva l' arte e viva gli artisti! Purché burocrati. E ossequiosi del comma 1/ter dell' art.47bis del dpr...

NB: grassetto del redattore.

I privilegi dei Rettori. E si lamentano pure...

Di Gennaro Sangiuliano per Libero

Qualche tempo fa, proprio l’allora rettore dell’Università di Siena Piero Tosi, finì in un mare di polemiche, che comportarono anche l’interessamento della Procura, che indagò sulla correttezza di alcuni concorsi, nomine e consulenze”.

“Il figlio, Gianmarco Tosi, aveva vinto nel 2003 il concorso per ricercatore di oculistica. Tosi junior, all’epoca dei fatti aveva 32 anni, una laurea con 110 e lode, 18 pubblicazioni e una specializzazione, il suo concorrente, il dottor Domenico Mastrangelo, nel 2003 era 48enne, aveva anche lui una laurea con 110 e lode ma 91 pubblicazioni e tre specializzazioni”.

“L’ateneo di Siena è stato sempre una roccaforte del Pci, poi Ds, prima di Tosi il rettore era stato Luigi Berlinguer, cugino di Enrico, ministro dell’Istruzione con vari governi ulivisti e il primo Prodi”.

“All’Università di Siena - sicuramente per incontestabili meriti - è stata chiamata come associato la professoressa Maria Rosaria Florinda Giuva, nota anche per essere la consorte di Massimo D’Alema, nominata con decreto n. 325 alla facoltà di Lettere”.

“In un altro prestigioso ateneo, quello di Bologna, il decreto 1663 del settembre 2006, invece, nomina professore ordinario alla facoltà di Farmacia, Luca Prodi, nipote del più celebre Romano. Naturalmente, anche in questo caso ci sono altissimi meriti scientifici”.

PROFESSIONE RETTORE

Stipendio: 120.000€ lordi all'anno, a cui vanno aggiunti rimborsi spesa e trasferte

Dotazione di ogni rettore: segreteria (di almeno 5 persone), addetto stampa, segretaria particolare ed auto con autista

Monte stipendi dei Rettori italiani (80 associati CRUI): 9.600.000€

NB: Piero Tosi è poi diventato Presidente della CRUI, la Conferenza dei Rettori, il "clan" di perottiana memoria. Il che è tutto dire...

Scuola, i riformisti del no

Di Ernesto Galli Della Loggia per corriere.it

Che cosa realmente sanno della scuola, della causa per cui protestavano, gli studenti che l'altro giorno hanno affollato le vie e le piazze d'Italia? Probabilmente solo che il potere, cattivo per definizione (figuriamoci poi se è di destra!), vuole fare dei «tagli», termine altrettanto sgradevole per definizione, e imporre regole limitatrici della precedente libertà (grembiule, valore del voto di condotta), dunque sgradevoli anch'esse. Sapevano, sanno solo questo, non per colpa loro ma perché ormai da tempo in Italia, nel dibattito tra maggioranza e minoranza, e di conseguenza nel discorso pubblico, la realtà, i dati, non riescono ad avere alcun peso, dal momento che su di essi sembra lecito dire tutto e il contrario di tutto. Nulla è vero e nulla è falso, contano solo le opinioni e i fatti meno di zero.

Esemplare di questo disprezzo per la realtà continua a essere il dibattito sulla scuola. C'è un ministro, Mariastella Gelmini, che dice che la scuola italiana non funziona. Porta delle cifre: sul numero eccessivo d'insegnanti, sull'eccessiva percentuale assorbita dagli stipendi rispetto al bilancio complessivo, sui risultati modesti degli studenti, sulla discutibile organizzazione della scuola nel Mezzogiorno; evoca poi fenomeni sotto gli occhi di tutti: l'allentamento della disciplina, gli episodi di vero e proprio teppismo nelle aule scolastiche. E alla fine fa delle proposte. Discutibilissime naturalmente, ma la caratteristica singolare dell'Italia è che nessuno, e men che meno l'opposizione, men che meno il sindacato della scuola che pure si prepara a uno sciopero generale di protesta, sembra interessato a discutere di niente. Né dell'analisi né di possibili rimedi alternativi a quelli proposti.

Cosa pensa ad esempio dei dati presentati dal ministro Gelmini il ministro ombra dell'istruzione del Pd, la senatrice Garavaglia? Sono veri? Sono falsi? E cosa indicano a suo giudizio? Che la scuola italiana funziona bene o che funziona male? E se è così, lei e il suo partito che cosa propongono? Non lo sappiamo, e bisogna ammettere che per delle forze politiche e sindacali che si richiamano con forza al riformismo si tratta di un atteggiamento non poco contraddittorio. Riformismo, infatti, dovrebbe significare prima di tutto la consapevolezza di che cosa va cambiato, e poi, di conseguenza, la capacità di indicare i cambiamenti del caso: le riforme appunto. Non significa dire solo no alle riforme altrui, e basta. Infatti, alla fine, dato il silenzio circa qualsiasi misura nel merito, l'unica proposta che rimane sul tappeto da parte del Partito democratico e del sindacato appare essere virtualmente solo quella di lasciare le cose come stanno. Naturalmente nessuno si prende la responsabilità di dirlo esplicitamente, ma ancor meno nessuno osa esprimere il minimo suggerimento concreto.

In realtà, a proposito della scuola una proposta precisa è stata ed è avanzata di continuo dall'opposizione politico-sindacale. Alla scuola — ci viene detto — servono più soldi (nel discorso pubblico italiano, di qualsiasi cosa si tratti, servono sempre o «ben altro» o «più soldi»). Insomma, la colpa del malfunzionamento della scuola starebbe nelle poche risorse di cui essa dispone: ciò che almeno serve politicamente a rendere ancor più deplorevole la recente decisione del ministro del Tesoro di togliergliene delle altre. Peccato però che pure in questo caso, per dirla con le parole di uno studioso che non milita certo nel campo della destra, Carlo Trigilia, sul Sole-24 ore di martedì scorso, dall'opposizione «non è stata elaborata alcuna proposta di manovra finanziaria che spiegasse se e come era possibile coniugare rigore finanziario e scelte concrete diverse da quelle del governo». Dunque neppure sul come e dove trovare quei benedetti soldi l'opinione pubblica ha la minima indicazione su cui discutere, su cui fare confronti e alla fine farsi un'idea.

Questo non tenere conto dei fatti, dei dati concreti, questo continuo scansare la realtà, finiscono così per diventare uno dei principali alimenti della diffusa ineducazione politica degli italiani. Nel caso della scuola contribuiscono a far credere a tanti, a tanti insegnanti, a tanti studenti, di vivere in un Paese governato da ministri sadici, nemici dell'istruzione, che chissà perché rifiutano di distribuire risorse che invece ci sono; contribuisce a far credere a tante scuole, a tante Università, che i problemi possono risolversi con la messa in scena spettrale — più o meno per il quarantesimo anno consecutivo! — dell'ennesimo corteo, dell'ennesima «okkupazione».

NB: grassetto del redattore.

sabato 1 novembre 2008

Università: 230 docenti per diritto ereditario

Di Emanuele Lauria per palermo.repubblica.it

Sono tanti con lo stesso nome. Troppi. E anche quando non si chiamano nello stesso modo, spesso sono parenti. Mogli, nipoti, cugini, cognati. Sono loro i padroni dell´Università. Famiglie. Ne abbiamo contate cento, probabilmente ce ne sono molte di più.

Abbiamo contato duecentotrenta consanguinei sparsi in aule, dipartimenti, facoltà. Un altro elenco verosimilmente incompleto, anche perché ci siamo fermati soltanto a ordinari, associati e ricercatori. Tralasciando il campo dei dottorati di ricerca. Un numero indiscutibile è però questo: il 54,7 per cento dei docenti dell´ateneo sono palermitani.

E due su tre, esattamente il 66, 8 per cento, vengono dalla provincia. Solo Napoli eguaglia la capitale della Sicilia in questa performance. Palermo è davanti a Catania e a Messina, a La Sapienza di Roma, a Torino, a Milano e a Bari. E il luogo di provenienza dei docenti, come spiega il professore della Bocconi Roberto Perotti nel suo libro «L´università truccata» (Einaudi), è il principale metodo «per quantificare più sistematicamente, anche se indirettamente, il ruolo del nepotismo e delle connessioni nell´università italiana».

L´altro - metodo - consiste nello studiare la frequenza dell´omonimia. Noi abbiamo cercato di andare oltre. Ricostruendo la fitta rete di intrecci familiari che sostiene il mondo accademico palermitano. Ecco i docenti parenti. Ecco le cento famiglie. I clan universitari più numerosi si scoprono in quattro facoltà: Medicina (58 docenti imparentati fra loro), Agraria (23 su appena 129 professori), Giurisprudenza (21).

In tutto sono almeno 230 i docenti parenti, legati con almeno un altro insegnante dell´ateneo da un rapporto di consanguineità di primo grado. Molti probabilmente sono i bravi, quelli che hanno la ricerca nel dna e fin da ragazzi sviluppano nell´ambiente familiare l´amore per gli studi. Ma sino che punto i rampolli dei «baroni» non ostacolano le ambizioni di altri studenti che non hanno il parente che conta? A Palermo come altrove, forse più che altrove visti i numeri, l´università può proporsi come casta.

La storia è quella di figli che salgono in cattedra per diritto ereditario, fratelli e sorelle che succedono inevitabilmente ai loro padri e ai loro zii, nipoti e cugini immancabilmente primi al pubblico concorso dove c´è sempre un docente in commissione che aiuta un altro. Alla fine, quest´inchiesta dimostra che non sempre ma troppo spesso quello che conta è il nome che si porta.

Un altro dato significativo riguarda la collocazione dei parenti docenti: in sessanta delle cento famiglie censite, ci sono almeno due componenti di stanza nello stesso dipartimento o nello stesso settore scientifico disciplinare. Per inciso, a Bari, dopo gli scandali degli anni scorsi, l´università ha adottato un codice etico che ha bandito la nomina di parenti stretti nello stesso settore e nella stessa facoltà. A Palermo questa regola non c´è.

E regnano le dynasty, che si formano in silenzio. A Medicina, dove la scienza è una vocazione ma pure un comodo bagaglio ereditario, c´è il record di parenti ma anche quelli dei docenti che sono 448. La parentopoli si annida naturalmente anche in altre facoltà. Ad esempio a Economia, il reame dei Fazio. Il capostipite è Vincenzo, ordinario di Scienze economiche, aziendali e finanziarie. Nello stesso suo dipartimento ci sono altri due Fazio: i suoi figli, Gioacchino associato e Giorgio ricercatore. Insegnano la stessa materia di papà.

Il preside di Economia si chiama Carlo Dominici, suo figlio Gandolfo è anche lui in facoltà per istruire gli studenti in Scienze economiche. Poi ci sono i due Bavetta, l´ordinario Sebastiano (fino a ieri l´altro assessore comunale) e Carlo associato, figli di Giuseppe che lì a Economia c´era fino a qualche tempo fa. Ora è in pensione. Un ultimo caso di padre e figli di quella facoltà: il docente di economia aziendale Carlo Sorci, che è anche presidente di una società regionale, e sua figlia Elisabetta - ricercatrice - che insegna Diritto commerciale.

La Medicina? In ateneo è affare di famiglia

Di Giuseppe Marino per ilgiornale.it

«I figli so piezz’ e core». Ma anche di reni, fegato, occhi. Perché nelle cliniche universitarie delle due facoltà di Medicina di Napoli praticamente in ogni specialità c’è il rampollo di un barone universitario che ha ereditato una cattedra, un assegno di ricerca, un posticino al caldo di uno stipendio statale garantito. E non è un caso isolato. Le facoltà di Medicina sono tra le più contagiate dal morbo del nepotismo. Anche perché non sono solo luoghi di studio e ricerca, essendo collegate a ospedali e policlinici. Insegnare a Medicina in molti casi significa controllare posti letto. E i posti letto sono potere. E il potere è denaro. Non a caso Roberto Perotti, il professore della Bocconi autore del più acclamato libro denuncia del momento («L’università truccata», ed. Einaudi) ha preso come caso di studio proprio queste facoltà. E ha certificato, nero su bianco, che questa parte di università ha un’organizzazione strutturalmente feudale. Perotti ha compilato una statistica semplice ma significativa: ha contato quanti docenti di Medicina abbiano almeno un omonimo all’interno della stessa facoltà. Poi ha allargato il cerchio alle altre sedi di Medicina all’interno della stessa regione, un esercizio fondamentale, perché tra i baroni vige un sistema di scambio di favori, grazie al quale spesso i parenti stretti vengono sistemati in università satellite. I risultati sono incredibili.

Il record va a Messina: tre su 10 hanno omonimi in facoltà e quattro su dieci in Regione. Ed è particolarmente incredibile se si pensa che Messina non è certo una metropoli. Non va molto meglio a Napoli Seconda: il 27 per cento dei prof può annoverare un collega con lo stesso nome in facoltà (il dato sale a 34 per cento confrontando con le facoltà della Regione). La Federico II di Napoli è appena al di sotto queste cifre. E non sorprende, visto che nel capoluogo campano perfino gli studenti hanno denunciato la situazione raccogliendo segnalazioni di omonimie in occasione di una protesta denominata «Barone Day». In poco tempo, allargando il tiro all’intero ateneo napoletano, sono arrivate oltre cento segnalazioni di parentele. E Perotti ha scoperto anche che più aumentano le omonimie, più cala la qualità della ricerca (misurata in termini di citazione degli studi da parte di pubblicazioni scientifiche). Attenzione, Medicina non è un’eccezione: c’è una parentopoli in tutta Italia con 14 inchieste e 117 indagati. Ma i baroni negano. A Padova a fare scoppiare il caso, nel maggio scorso, è stato Ermanno Ancona, direttore della 3° clinica chirurgica, che ha inviato una mail ai 600 colleghi in vista dell’elezione del preside della facoltà. Nel messaggio elettronico si parlava di «questione etica» e di «nepotismo deteriore».

L’appello probabilmente è arrivato anche ad Antonio Ambrosini, direttore di Ginecologia, e al figlio Guido, che insegna nello stesso dipartimento. Oppure all’ex preside Antonio Tiengo e al figlio Cesare, medico a Chirurgia plastica clinica. Non è dato sapere come abbiano risposto. È agli atti di articoli di giornale invece la risposta di uno dei professori che era candidato alla massima carica della facoltà: «No comment, di queste cose si parla tra colleghi e non sui giornali». Come dire: è affare di famiglia, di cosa si impicciano studenti e contribuenti? La sensazione di onnipotenza e di impunità trasuda dalla ramificazione delle parentele. Ci sono professori che fanno stipulare contratti ai parenti direttamente, senza nemmeno passare per il fastidio di un concorso truccato (c’è un caso citato in un’inchiesta a Bari). Alla Federico II di Napoli il padre di un docente è stato condannato per aver agevolato l’assunzione del figlio. Ma l’erede è rimasto al suo posto. A Firenze è stato rinviato a giudizio il professor Firminio Rubaltelli per una «spintarella» alla collega Giovanna Bertini, di 28 anni più giovane. I due hanno sempre smentito di avere una relazione come sostenuto dal Gip. Poi la Finanza ha trovato a casa di lei una lettera di lui dai toni decisamente affettuosi. Eppure se glielo provi a dire ai baroni che il loro ormai è un sistema, si offendono. Perotti è stato inondato di messaggi indignati per la sua statistica sulle omonimie. «Non provano le parentele». Già è vero: restano fuori mogli, cugini e amanti.