venerdì 31 ottobre 2008

La caccia ai consensi facili

Di Gian Antonio Stella per corriere.it

Dilaga la rivolta nelle scuole? Tutti voti guadagnati. La battuta non è di Walter Veltroni, Antonio Di Pietro o Paolo Ferrero. La battuta è di Gianfranco Fini. E fu fatta in occasione dell' ultimo grande "incendio" scolastico prima dell' attuale. Quello scoppiato nel 2000 contro la svolta meritocratica tentata da Luigi Berlinguer. Disse proprio così, come ricorda una notizia Ansa, l' allora presidente di Alleanza Nazionale: «Dovrei ringraziare la Bindi e il suo collega Berlinguer, perché da medici e insegnanti verrà un consenso nuovo e fresco al Polo». E non si trattava di una strambata estemporanea. Il giorno in cui i professori ribelli erano calati a Roma «per dire no al concorso per gli aumenti di merito», il primo a portare la sua solidarietà ai manifestanti era stato lui, l' attuale presidente della Camera. Opinione solitaria? Per niente: l' onda dei contestatori, allora, fu cavalcata (fatta eccezione per la Lega, che non aveva ancora ricucito del tutto col Polo e preferì una posizione più defilata) da tutta la destra. Dall' inizio alla fine. Lascia quindi sbalorditi sentire oggi Mariastella Gelmini dire che «il disastro dell' istruzione in Italia è figlio delle logiche culturali della sinistra contro il merito e la competitività», che «per decenni scuola e università sono state usate come distributori di posti di lavoro, di clientele e magari di illusioni» e che la sola sinistra ha la responsabilità d' avere seminato «l' illusione che lo Stato possa provvedere a dare posti fissi in modo indipendente dalla situazione economica e dal debito pubblico». Sia chiaro: la sinistra e il sindacato hanno responsabilità enormi, nel degrado non solo della scuola e dell' università, ma dell' intera macchina pubblica italiana. Fin dai tempi in cui lo psiuppino Lucio Libertini teorizzava che «l' attivo della bilancia dei pagamenti e la consistenza delle riserve non sono dati positivi in assoluto» e il segretario comunista Luigi Longo tuonava che «non è lecito al governo trincerarsi dietro le difficoltà finanziarie». La caricatura feticista del garantismo che ha permesso di restare in cattedra a professori che insegnano voltando le spalle agli alunni o sono stati condannati per essersi fregati i soldi delle gite scolastiche è frutto di una deriva sindacalese. E così la nascita delle «scodellatrici» che devono dar da mangiare ai bambini perché «non spetta» alle bidelle. E tante altre cose inaccettabili. Che la situazione sia tutta colpa della sinistra e solo della sinistra, però, è falso. E lo scaricabarile, oltre a essere indecoroso, impedisce a una destra moderna di fare i conti fino in fondo con la storia, con i problemi del Paese e con se stessa. Perché forse è una forzatura polemica quella di Enrico Panini, segretario nazionale Cgil-scuola, quando dice che i precari «erano il serbatoio e lo spasso della Dc». Ma le sanatorie per i professori non le ha inventate la sinistra: la prima porta la firma di Vittorio Emanuele II nel 1859. «In eccezione alla regola del concorso...». Hanno radici profonde, i mali della nostra scuola: «Dal 1860 ci sono stati 33 ministri della Pubblica Istruzione, ciascuno desideroso di distinguersi rovesciando l' opera del predecessore. Il danaro è stato lesinato; e lo Stato e i Comuni, prodighi in ogni altra cosa, hanno fatta economia nel più fruttifero degl' investimenti nazionali», scrivevano nel 1901 H. Bolton King e Thomas Okey nel libro L' Italia di oggi. Cosa c' entra la sinistra se perfino Giovanni Gentile, del quale gli stessi antifascisti più antifascisti riconoscono la statura, durò come ministro della Pubblica istruzione solo una ventina di mesi? Se addirittura Benito Mussolini fu costretto a cambiare in quel ruolo più ministri di quanti allenatori abbia cambiato Maurizio Zamparini? Se la Dc per mezzo secolo ha mollato quel ministero-chiave solo rarissime volte e mai a un uomo di sinistra? Se la sanatoria più massiccia fu voluta dalla democristiana Franca Falcucci che nel 1982 propose alle Camere di inquadrare nel ruolo i precari della scuola e a chi le chiese quanto sarebbe costata rispose 31 miliardi e 200 milioni di lire l' anno, cifra che si sarebbe rivelata presto 53 volte più bassa del reale? La verità è che sulla scuola, il precariato, il mito clientelare del posto pubblico hanno giocato, per motivi di bottega, praticamente tutti. E che l' egualitarismo insensato di un pezzo della sinistra e del sindacato si è saldato nei decenni col sistema clientelare democristiano e socialista, socialdemocratico e liberale e infine cuffariano e destrorso. Fino all' annientamento dell' idea stessa del merito. Annientamento condiviso per quieto vivere da tutti. Trasversalmente. L' ultima dimostrazione, come dicevamo, risale nella scuola a nove anni fa. Quando Luigi Berlinguer riuscì a recuperare 1.200 miliardi di lire per dare aumenti di merito ai professori più bravi: uno su cinque sarebbe stato premiato con 6 milioni lordi l' anno in più in busta paga. Uno su cinque era troppo poco? Può darsi. Dovevano essere definiti meglio i criteri? Può darsi. Il sistema dei quiz non era l' ideale? Può darsi. Ma l' obiettivo del ministro era chiaro: «Va introdotto il concetto di merito. Chi vale di più deve avere di più». Fu fatto a pezzi. Dai sindacati e dalla "sua" sinistra, per cominciare. Basti ricordare il rifondarolo Giovanni Russo Spena («meglio distribuire i soldi a tutti e concedere a tutti un anno sabbatico a rotazione»), il verde Paolo Cento, la ministra cossuttiana Katia Bellillo («no alla selezione meritocratica dei docenti») o il leader dei Cobas Piero Vernocchi, deciso a far la guerra «contro ogni tipo di gerarchizzazione del sistema scolastico». Ma anche la destra cavalcò le proteste. Alla grande. Francesco Bevilacqua, di An, attaccò al Senato il ministro accusandolo di avere «stabilito per legge che il 20% dei docenti in Italia è bravo e che gli altri lo sono meno o non lo sono affatto». Il suo camerata Fortunato Aloi sostenne alla Camera che quel «concorsaccio non poteva assolutamente non mortificare coloro i quali operano nel mondo della scuola» i quali avevano «giustamente mobilitato le piazze». Lo Snals, che certo non era un sindacato rosso, fu nettissimo. Punto uno: «Rifiuto di ogni forma di selezione fra gli insegnanti». Punto due: «Riconoscimento della professionalità di tutti i docenti». E i primi ad appoggiare la lotta, con un documento che intimava al governo di «sospendere immediatamente il concorso», furono l' allora casiniano e oggi berlusconiano Carlo Giovanardi, la responsabile Scuola di An Angela Napoli e la responsabile Scuola di Forza Italia Valentina Aprea. La quale, vinta la battaglia contro il concorso meritocratico per i professori, ne scatenò subito un' altra sui dirigenti scolastici: «Sconfitto sul fronte dei docenti ora Berlinguer vuole prendersi una rivincita con i capi di istituto. I discutibili criteri di valutazione rimangono inalterati, con la conseguenza di creare il battaglione del 20% di super-presidi e conferendo la patente di mediocrità al restante 80%». Parole inequivocabili. Dove non erano contestate solo le modalità ma l' idea stessa degli aumenti di merito che pure dovrebbe essere cara a chi si proclama liberale. Come sia finita, quella volta, si sa. Luigi Berlinguer fu costretto a rinunciare, dovette mollare la carica di ministro e il suo naufragio è stato la pietra tombale di ogni ipotesi meritocratica. E noi ci ritroviamo, dieci anni dopo, alle prese con gli stessi temi. Aggravati. Vale per la destra, vale per la sinistra. Le quali, come accusa uno studio di «Tuttoscuola» (www.tuttoscuola.com), non si fanno troppi scrupoli di cavalcare ciascuno la propria tigre anche «addomesticando» i numeri. Che senso ha? Come spiega il dossier della rivista di Giovanni Vinciguerra, «al nostro Paese serve un recupero di qualità del confronto politico e sociale in un momento di così profonda crisi del ruolo e della legittimazione sociale del sistema educativo nazionale, non guerre sui dati o sui grembiuli».

NB: è tutto troppo tristemente vero. Mi permetto solo di notare che un conto è protestare contro la meritocrazia, un altro è farlo contro la meritocrazia stabilita per legge: entrambe le cose sono sbagliate, ma molto di più la prima, ovviamente...

Due patti scellerati (fra docenti, studenti e genitori)

Di Luca Ricolfi per lastampa.it

Il decreto Gelmini è stato convertito in legge, scuola e università sono in agitazione. Il mondo della scuola scenderà in piazza oggi (chissà perché dopo e non prima dell’approvazione del decreto?), mentre l’Università si mobiliterà il 14 novembre, per combattere tagli che furono decisi fra giugno e agosto, quando il Partito democratico riteneva inopportuno scendere in piazza («Noi manifesteremo il 25 ottobre»). Misteri della politica italiana.

Ma parliamo della sostanza. Che cosa sta succedendo nella scuola e nell’università? Perché studenti, docenti e genitori paiono trovarsi dalla medesima parte della barricata?

Quel che sta succedendo è relativamente chiaro, almeno per chi conosce i dati di fondo dell’istruzione in Italia e riesce a non farsi accecare dalle proprie credenze politiche. Sia la scuola sia l’università dissipano una quota di risorse pubbliche considerevole, nel senso che spendono più soldi di quanti, con un’organizzazione più efficiente, basterebbero a garantire i medesimi servizi. Su questo, quando si trovano al governo, destra e sinistra la pensano allo stesso modo.

Chi avesse dei dubbi può consultare due documenti del governo Prodi (il «Quaderno bianco sulla scuola» e il «Libro verde sulla spesa pubblica»). Credo non si sia lontani dal vero dicendo che, con una migliore allocazione delle risorse, sia la spesa della scuola sia la spesa dell’università potrebbero essere ridotte di almeno il 10 per cento a parità di output.

La novità di questi mesi non sta nella diagnosi, ma nella determinazione con cui si sta passando dalle parole ai fatti: la destra al governo sta facendo con la consueta ruvidezza molte cose che la sinistra stessa, magari con più garbo, avrebbe fatto se ne avesse avuto la forza, il tempo e il coraggio (fra queste cose c’è, ad esempio, il rispetto delle norme Bassanini sul numero minimo di allievi per scuola, varate dal centro-sinistra ben 10 anni fa). Del resto fu lo stesso Padoa-Schioppa, all’inizio della scorsa legislatura, ad avvertirci che certi sprechi non possiamo più permetterceli e a ricordarci che il problema di eliminarli dovremmo porcelo comunque, persino se avessimo i conti perfettamente in ordine: ogni spesa, infatti, ha un «costo opportunità», ossia è sottratta ad impieghi alternativi (se buttiamo al vento 8 miliardi per false pensioni di invalidità, automaticamente rinunciamo a una cifra equivalente in asili nido, sussidi di disoccupazione, aiuti ai poveri, sostegno ai non autosufficienti ecc.).

Su questo il governo ha ragioni da vendere, anche se non si può non rilevare che molte misure - pur condivisibili negli obiettivi - diventano criticabili per il modo in cui sono messe in pratica. È il caso, per fare l’esempio più importante, dei tagli all’università, che sarebbero ben più accettabili se punissero ancora più duramente gli atenei in dissesto, ma premiassero con più e non meno soldi gli atenei virtuosi.

Ma quella degli sprechi è solo una delle due facce del problema dell’istruzione in Italia. L’altra faccia è il tragico declino dei livelli di apprendimento, la scarsissima preparazione dei nostri diplomati e laureati, specialmente nelle regioni meridionali. Di questo sono corresponsabili ministri e docenti, ma anche gli studenti e soprattutto le loro famiglie. Il sistema dell’istruzione in Italia si regge su due patti scellerati: nella scuola, il patto fra insegnanti e famiglie, nell’università il patto fra docenti e studenti. Il cardine del primo patto è: l’importante è che il ragazzo sia sereno, vada avanti senza soffrire troppo, prenda il diploma; che poi impari molto o poco conta di meno. Il cardine del secondo patto è: l’importante è arrivare alla laurea, non importa in quanto tempo e imparando che cosa; noi professori pretendiamo sempre di meno da voi studenti, voi studenti non ci importunate e vi accontentate di quel poco che riusciamo a trasmettervi. Naturalmente ci sono anche - nella scuola come nell’università - isole felici e importanti eccezioni, ma il quadro generale è purtroppo diventato questo.

Sono precisamente i due patti non scritti che spiegano l’inconsueta alleanza fra una parte dei docenti, una parte degli studenti e una parte dei genitori. I docenti difendono i posti di lavoro (nella scuola) e le carriere (nell’università). I genitori difendono una scuola che insegna poco e male, ma in compenso non stressa i ragazzi e risolve non pochi problemi reali delle famiglie, specie quando la madre lavora. I ragazzi sono preoccupati per l’avvenire e temono di essere le uniche vittime dei cambiamenti che si stanno preparando per loro.

E hanno perfettamente ragione. Solo che indirizzano la loro ira verso il bersaglio sbagliato. Se fossero calmi e lucidi avrebbero già capito che il futuro non glielo ruba la Gelmini, ma glielo hanno già rubato molti degli adulti al cui fianco marciano con tanta convinzione. La precarietà dei giovani e il ristagno del sistema Italia sono anche il risultato non voluto e non previsto di una lunga e colpevole disattenzione per la qualità dell’istruzione. Il governo non è certo innocente, perché non c’è quasi nulla nei provvedimenti di cui da mesi si discute che lasci prefigurare un innalzamento apprezzabile del livello degli studi, e c’è persino qualcosa che fa temere un ulteriore declino. Ma coloro che aizzano bambini e ragazzi contro le misure del governo non la contano giusta: se davvero avessero a cuore il futuro dei nostri giovani si batterebbero come leoni per tagliare i rami secchi e rendere gli studi molto più seri, più rigorosi, più profondi. Perché lo smarrimento e l’angoscia di questa generazione sono genuini e pienamente comprensibili, ma sono anche il frutto della superficialità con cui gli adulti hanno permesso la distruzione della scuola e dell’università.

NB: l'unica pecca che segnalo all'articolista, sempre ottimo nella sua analisi, è che l'azione di un Ministro va valutata nel suo complesso, non è che possiamo fermarci alla sua unica legge, perché ne hanno ancora da venire di leggi e piani attuativi, quindi prima di dire che il Governo non ha intenzione di alzare la qualità dell'insegnamento aspetterei a valutare, consdierando soprattutto il fatto che tutto ciò che riguarda la 133 e la legge Gelmini inizierà il suo decorso dal 2010, quindi con un anno di tempo per mettere in chiaro tutto ciò che va messo in chiaro.

Spunta pure il dottore in beauty

Articoli tratti dalla rassegna stampa del 30/10/08 e del 31/10/08.

Le Dinastie in cattedra, di Francesco Magris per Il Piccolo

I prof scioperano ma intascano lo stipendio, su ilgiornale.it

Spunta pure il dottore in "beauty", di Federico Casabella per Il Giornale

Linee di moda, radio, bar. E l'ateneo finisce in rosso, di Miska Ruggeri per Libero

L'università laureata in sprechi, di Antonio Rossitto per Panorama

«Stupito per tante critiche, si sventolano dati falsi», int. a Luca Ricolfi per Giornale di Sicilia

Fondi solo per i migliori, di Roberto Perotti per Il Sole 24 ore

giovedì 30 ottobre 2008

Domande e risposte sul maestro unico

Il maestro unico/prevalente non è in grado di insegnare all'alunno la complessità della società italiana. E cosa ha la società italiana di talmente più complesso rispetto a Francia, Germania, Inghilterra ed USA (per limitarci alle principali) da doversi distinguere in modo così netto e pronunciato? Se anche fosse vero questo assunto, non potrebbero essere più che sufficienti due maestri?

Il maestro unico/prevalente non sarà in grado di insegnare italiano, matematica, storia, geografia, inglese, etc. come adesso. Secondo il pensiero di fondo che portò al passaggio al triplo maestro, la specializzazione che ne sarebbe conseguita avrebbe aumentato il livello di apprendimento dei bambini: non si capisce allora come nei principali test di rilevamento nei campi di italiano e scienze il livello medio sia crollato, in alcuni casi addirittura dietro Paesi come Cipro. Non si capisce neanche come, a giudicare dalle rilevazioni INVALSI, il grado di apprendimento peggiora progressivamente con il passare degli anni: un alunno di quarta elementare va peggio di un alunno di seconda elementare. Infine, come sopra, non si capisce perché i maestri francesi, spagnoli, tedeschi, inglesi, siano perfettamente in grado di insegnare quelle materie mentre l'insegnante italiano no. In base a quale assunto si dice questo?

Il maestro unico è un ritorno agli anni '40. Al massimo sarebbe un ritorno agli anni '80 (era in vigore fino al 1990), ma in ogni caso è un ritorno al presente o se volete un "ritorno al futuro", perché tutti i principali Paesi (tutti i Paesi in Europa), come detto, hanno il maestro unico/prevalente e non prevedono alcuna riforma in tal senso.

Il maestro unico porterà alla cancellazione di 87.000 posti di lavoro, i più penalizzati saranno i precari. In maniera molto brutale bisogna dire che la definizione di "precario" non prevede l'assunzione programmata: secondo poi, lo Stato italiano non può farsi carico di promesse assurde e fasulle della sinistra italiana, che con una mozione sindacale nel 1990 ha trasformato la scuola in una riserva di iscritti ed in un ammortizzatore sociale. In ogni caso, questo taglio sposterà soltanto in avanti nel tempo la stabilizzazione dei precari. È vero, su di loro pesano le scelte sbagliate di partito e sindacali, ma le stesse scelte non le si può far pesare allo Stato, cioè alle tasche dei cittadini, già in gravi difficoltà economiche. L'Italia oggi paga 70miliardi di euro in debiti di bilancio: se vogliamo recuperare una grossa parte di questi soldi l'unico modo è tornare sotto il 100% del rapporto debito/PIL: purtroppo per farlo sono necessarie scelte impopolari, ma sono scelte dettate da un assunto molto semplice. La stabilità dei nostri genitori, ottenuta spendendo soldi che lo Stato non aveva (ergo aumento del debito pubblico), la pagano i loro figli, che si devono accollare in toto il riordino dei conti pubblici. È dimostrabile sulla base degli atti parlamentari del tempo che la scelta del triplo maestro risponde soltanto ed esclusivamente ad esigenze occupazionali: nella scuola di deve pretendere il bene dei ragazzi, non quello dei sindacati, che è giusto facciano il loro mestiere come è giusto che il Governo faccia il suo.

Il maestro unico provocherà la scomparsa del tempo pieno: le scuole al più saranno parcheggi. Questa falsità sparata sulle famiglie italiane dalla sinistra per fare terrorismo scolastico è stata smontata da un dossier di Tutto Scuola, il quale così si esprime: «Attualmente le classi di scuola primaria organizzate a modulo sono circa 104 mila (il 75% del totale), mentre quelle a tempo pieno sono circa 34 mila (25%); se circa la metà delle classi normali a modulo passassero a 24 ore settimanali, vi sarebbero 50-52 mila classi con il docente unico, con un risparmio di altrettante mezze unità di personale (e quindi di 25-26 mila posti). Supponendo che un terzo di quel risparmio, pari a 16-17 mila mezze unità di personale docente (pari a circa 8 mila posti) fosse reinvestito gradualmente in nuove classi a tempo pieno, avremmo, senza oneri aggiuntivi, l’incremento di altrettante classi che passerebbero dalle attuali 33 mila (25% del totale) a circa 50 mila (37% del totale) con un aumento del tempo pieno del 50%. In questo caso sarebbero circa 300 mila gli alunni che beneficerebbero dell’estensione del servizio: dai 672 mila dell’anno scolastico 2007/2008, a circa un milione». È un semplice calcolo matematico, che non appare particolarmente difficile. Di nuovo, l'idea del "doposcuola" che nella dizione della sinistra significa uno scadimento della qualità didattica non appare in nessun punto del documento programmatico della Ministro Gelmini: come segnalato da un altro documento di Tutto Scuola infatti, «È vero che nel piano programmatico non appare la dizione “tempo pieno”, bensì la stessa dizione utilizzata dalla riforma Moratti con articolazione delle diverse parti dell’orario fino a 40 ore settimanali. L’ipotesi di “doposcuola” però non appare da alcuna parte e, comunque, l’organizzazione interna del servizio è di competenza delle scuole che ripartiscono autonomamente le attività didattiche nell’arco della giornata». Entrambi i dossier possono essere prelevati in alto nella colonna destra di questo blog. Infine, le associazioni dei genitori si sono dette contente e soddisfatte del chiarimento che la Ministro ha dato su questo punto nell'incontro programmato pochi giorni or sono.

Il triplo maestro è stata una grande conquista della migliore pedagogia italiana targata anni '70. Perché si vuole tornare a questa scelta, in base a quali parametri? Si rischia di rovinare l'unico livello di istruzione che funziona davvero. Il parametro migliore sarebbe il fatto che nessun Paese dopo oltre 15 anni ha seguito la scelta dell'Italia in tal senso: possibile che la pedagogia internazionale non abbia invitato tutti gli altri grandi Paesi (almeno loro!) a seguire l'esempio italiano se questo si fosse rivelato così splendido? Scienziati e pedagogisti discutono di questi temi (le conclusioni della pedagogia spesso differiscono da quelli delle neuroscienze) e probabilmente non ne usciranno mai, però è significativo che nessun Paese abbia seguito l'Italia se il suo sistema si fosse rivelato nel tempo superiore. In realtà, ci sarebbe un'altra questione più importante: la frantumazione delle capacità logico-mentali dei ragazzi. Sono oramai numerosi gli studi che hanno messo in luce, nelle classi del liceo, le mancanze delle più elementari basi per articolare pensieri complessi, cioè la mancanza di quelle basi che si apprendono nel corso della scuola primaria. Lo stesso non si nota in quei Paesi che hanno conservato l'impostazione del maestro unico/prevalente. Proprio le performance disastrose delle classi liceali dovrebbe portare a concludere che la scuola elementare non funziona: al di là del fatto che nelle classifiche essa è scesa di posizioni, la sua efficacia va valutata sul lungo termine, non soltanto sullo sprint del singolo anno scolastico. Se i bambini della prima scuola media ottengono punteggi bassi, ciò non può essere dovuto soltanto alla scuola secondaria ed ai suoi insegnanti, ma anche evidentemente a chi quei bambini li ha preparati per cinque lunghi anni.

Con il maestro unico si corre il rischio che il bambino viva per 5 anni con una persona non all'altezza. Invece con i tre maestri questa possibilità è ridotta. Beh allora perché non introdurne 5, così questa possibilità si riduce ulteriormente... Nella realtà bisogna puntare maggiormente sulla formazione degli insegnanti, che spesso ottengono l'abilitazione su test da livello elementare oppure per il semplice fatto di aver frequentato un corso universitario di matematica o di storia. Si deve puntare ad aumentare la media buona degli insegnanti, non tenerla bassa alzandola con il numero. Questo non vale soltanto per la scuola primaria ma per tutti i gradi dell'istruzione italiana, spesso anche per quella universitaria. È da qui che si deve partire per migliorare il livello della scuola: certamente il maestro unico da solo è inutile, ma è stato utile il passaggio al triplo? Ed è intima convinzione di moltissimi che ciò si potrà ottenere non solo sui libri ma anche sulla busta paga: l'attuale Governo con questa riforma ha già garantito un aumento di stipendio per i maestri ed altri aumenti ne prevede per i prossimi anni (si parla di 7.000€ in più all'anno a partire dal 2011-2012), a cui si aggiungono incentivi e premi da valutare su base meritocratica. Sempre che la crisi economica internazionale sia d'accordo con il Governo italiano, questo purtroppo per onestà va detto.

La fabbrica dei docenti

Di Francesco Giavazzi per corriere.it

La situazione nelle nostre università è paradossale. Studenti e professori protestano contro una riforma che non esiste; il ministro, preoccupato dalle proteste, non si decide a spiegare quel che intende fare per riformare l' università. L' unica certezza è che nei prossimi mesi si svolgeranno nuovi concorsi per 2.000 posti di ricercatore e 4.000 posti di professore ordinario e associato, ai quali seguiranno, entro breve, altri 1.000 posti di ricercatore. In tutto 7.000 posti, più del dieci per cento dei docenti oggi di ruolo. I 4.000 posti di professore saranno semplicemente promozioni di persone che sono dentro l' università. Le promozioni avverranno secondo le vecchie regole, cioè con concorsi finti. E' assolutamente inutile che un giovane ricercatore che consegue il dottorato a Chicago o a Heidelberg faccia domanda: di ciascun concorso già si conosce il vincitore. I 3.000 concorsi per ricercatore assicureranno un posto a vita ad altrettanti dottorandi che lamentano la loro condizione di precari. In tutte le università del mondo ad un certo punto si ottiene un posto a vita, ma ciò avviene solo dopo aver dimostrato ripetutamente di saper conseguire risultati nella ricerca. Qui invece si chiede la stabilizzazione per decreto senza neppure che sia necessario aver conseguito il dottorato. Il ministro ha ereditato questi concorsi dal suo predecessore e non pare aver la forza per cambiarli e assegnare i posti secondo criteri di merito piuttosto che di fedeltà. Gli studenti ignorano tutto ciò e sembrano non capire l' importanza di meccanismi di selezione rigorosi, in assenza dei quali le università che frequentano vendono favole. In quanto ai professori, buoni, buoni, zitti, zitti. Se questi concorsi andranno in porto ogni discussione sulla riforma dell' università sarà d' ora in poi vana: per dieci anni non ci sarà più posto per nessuno e ai nostri studenti migliori non rimarrà altra via che l' emigrazione. La legge finanziaria dispone un taglio ai fondi all' università che è significativo, ma non drammatico: in media il 3% l' anno (1,4 miliardi in 5 anni su una spesa complessiva di circa 10 miliardi l' anno). Si parte da tagli quasi nulli nel 2009, mentre poi le riduzioni diverranno via via crescenti per raggiungere la media del 3% nell' arco di un quinquennio. Il taglio non è terribile, anche considerando che la stessa Conferenza dei rettori ammette che in Italia la spesa per studente è più alta che in Francia e in Gran Bretagna. Comunque reperire risorse è sempre possibile: ad esempio, si potrebbero cancellare le regole sull' età di pensionamento approvate dal governo Prodi, ritornare alla legge Maroni e investire i denari così risparmiati nella ricerca e nell' università. Né mi parrebbe osceno far pagare tasse universitarie più elevate alle famiglie ricche e usare il ricavo in parte per compensare i tagli, in parte per finanziare borse di studio per i più poveri. Come spiega Roberto Perotti in un libro che chiunque si occupa dell' università dovrebbe leggere («L' università truccata», Einaudi, 2008) tasse uguali per tutti sono un modo per trasferire reddito dai poveri ai ricchi. I dati dell' indagine sulle famiglie della Banca d' Italia, citati da Perotti, mostrano che il 24% degli studenti universitari proviene dal 20% più ricco delle famiglie; solo l' 8% proviene dal 20% più povero. Nel Sud la disparità è ancora più ampia: 28% contro 4%. Il ministro Gelmini afferma che il suo modello è Barack Obama: forse il ministro non sa quanto costa a una famiglia americana mandare il figlio in una buona università. In una delle migliori, il Massachusetts Institute of Technology, la frequenza costa 50.100 dollari l' anno (40.000 euro), ma il 64% degli studenti che frequentano il primo livello di laurea riceve una borsa di studio.

È finita la protesta apolitica? Gli scontri di piazza Navona

Alla fine, il tanto vituperato scontro di piazza è arrivato. Per diverse settimane le proteste (che non condivido né nei toni né tanto meno nei pensieri) sono filate lisce e "gioiose". I ragazzi, sfrondati di ideologismi politici e quant'altro, muniti soltanto dei vessilli delle rispettive scuole, sono scesi ripetutamente in piazza, creando certo disordine alla circolazione ma indubbiamente nessun problema di ordine pubblico. Non si sapeva neanche bene chi fosse di sinistra o chi fosse di destra, chi avesse votato Walter, Silvio o chi per loro, il che è certamente un significativo innalzamento di livello rispetto agli anni passati. Indubbiamente tuttavia, il background di base ha orientato i motivi della protesta, spingendoli di volta in volta a focalizzare maggiormente alcuni punti piuttosto che altri.

Quello che è successo ieri 29 ottobre, dopo la conversione del DL137 in legge, è stato un ritorno al cavernicolismo delle proteste studentesche: chi si arroga di assegnare patenti di democrazia ai partecipanti e dopo averle assegnate si preoccupa anche di consegnarle al destinatario, con caschi e spranghe. Ora, io non condivido nulla di quello che portano avanti quelli di Forza Nuova e l'espressione studentesca del loro movimento, Blocco Studentesco, non condivido nulla dal punto di vista politico e dell'ideologia di fondo: d'altronde, a differenza che in passato, non fanno parte della coalizione di Governo né della maggioranza in Parlamento.

Dal video che di seguito si presenta si può chiaramente vedere che erano lì in piazza con l'approvazione degli studenti, ovvero partecipando insieme a loro, con musiche canti e slogan alla protesta. Non so se è vero come dice qualcuno che si siano fatti largo nella piazza menando a destra e a manca (la logica vorrebbe che se così fosse la piazza si sarebbe ribellata, invece nulla di tutto ciò: beceri momenti di tensione non fanno una rissa contro la piazza), ciò che è vero è che un signorotto piuttosto attempato e di sinistra non ha smosso di una virgola l'animo dei ragazzi della piazza, che hanno inveito contro di lui quando ha cominciato ad urlare "Siamo tutti antifascisti!" (ergo, la piazza l'ha mandato a quel paese, non la piazza è fascista, spero che almeno questo esercizio di logica sia facile da portare a termine). Alla fine di tutto, un gruppo di comunisti appartenenti ai collettivi, centri sociali ed altra marmaglia del genere si è portata in piazza Navona con l'unico intento di fare a botte e "cacciare" i fascisti: dal filmato si vede benissimo che ciò che dà il via allo scontro (il lancio di un fumogeno ed una bottiglia) ha origine nel gruppo dei caschi bianchi. I quali sono giunti in piazza già di tutto punto preparati per lo scontro, come si può vedere dal video di Matrix, nel quale la polizia li ha intercettati e momentaneamente bloccati prima dell'ingresso alla piazza: cosa abbia spinto poi le forze dell'ordine ad accompagnare questo gruppo e a lasciare loro la libertà di muoversi resta un mistero. I ragazzi che fuggono dalla piazza avevano già fiutato l'aria che tirava, il fatto che le forze dell'ordine abbiano messo più di 5 minuti a capire l'inevitabilità dello scontro e ad intervenire per diradare i contendenti resta anch'esso un mistero. Non dovevano frapporsi fra i gruppi come qualcuno chiede (la polizia non può mai mettersi in mezzo se non in grandi forze), ma quanto meno rimanere vigili e prontissimi, cosa che non è avvenuta a mio avviso. Sarà anche vero che quei bastoni e quei caschi sul camion non dovevano esserci, sarà anche vero che la polizia doveva controllare meglio: ma è ancora più vero che quei bastoni e quei caschi c'erano anche ieri e l'altro ieri, quando nulla è successo, nessuno scontro, niente di niente, solo canti e balli con la musica pompata dalle casse. È già finito il mito dell'onda apolitica come si chiede Il Riformista? Probabile, sempre che sia davvero iniziata, ma in Italia non potrà mai esserci un movimento apolitico finché non ci si libererà dei fantasmi del passato: invece di essere contro le dittature, c'è chi ancora oggi si arroga il diritto di essere comunista e chi non è antifascista non ha diritto di parola e democrazia, in uno strano avvitamento irrazionale che grida vendetta contro chi, come noi, è contro tutte le dittature, comunismo compreso.

Comunque, non stanchi di tutto ciò, alle 16:00 questi signorotti hanno improvvisato una manifestazione alla Sapienza gridando di essere stati aggrediti e quant'altro. Franco Giordano di Rifondazione Comunista si è indignato a Matrix per la presenza del camion di Blocco Studentesco alla manifestazione (che dire invece del furgone dove lo "studente" attempato di sinistra inveiva contro il Governo?), tentando la solita sortita comunista di ribaltamento e divorzio dalla realtà.

Io non difendo i signori di Blocco Studentesco ma oramai provo sempre più odio e disprezzo per questi comunisti che seminano panico e terrore nelle città e poi fanno le faccette angeliche... Siamo stanchi, ve ne dovete stare fuori dal Parlamento come hanno voluto gli Italiani e lasciare alle forze politiche democraticamente elette e agli studenti liberi di manifestare il loro dissenso in maniera pacifica. Indipendentemente dal fatto che si condivida questa protesta nei modi, nei toni e negli slogan che, come ripeto, non sono di mio gradimento.

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EDIT 01/11/08: la tesi complottista dell'infiltrato della Polizia all'interno del Blocco avanzata dagli studenti di sinistra e propagata dal Corriere è stata smontata da La Repubblica con questo video. In relazione alle foto che mostrano alcuni studenti del Blocco aggredire altri studenti presenti sulla piazza, si tratta né più né meno (forse più) che di una aggressione di stampo fascistoide a danno dei presenti. Tale aggressione non ha alcun collegamento cronologico con quanto avvenuto dopo: come si vede dai video, centinaia di studenti cantano e ballano alle musiche del Blocco prima dell'arrivo dei Collettivi e fuggono in seguito alla presenza degli stessi. Se fosse confermata la versione che vuole i Collettivi della Sapienza chiamati a comando, si aprirebbe un altro capitolo: chi li ha chiamati? Con quale scopo? 200 persone che si portano in una piazza con caschi e volto coperto, e con bottiglie di vetro e fumogeni in tasca, a casa mia tutto hanno tranne che un intento pacifico...

Nota di cronaca: non sono state le foto pubblicate su Flick che avrebbero dovuto aprire anche questo capitolo nelle indagini della Polizia, in quanto le testimonianze di questo assalto sono state raccolte anche dai telegiornali nei loro servizi, in primis la già ricordata trasmissione di Matrix (video).

EDIT 03/11/08: ulteriori dati. A chiamare un dirigente del Partito della Rifondazione Comunista sarebbe stato un liceale del Tasso, a quel punto il tam tam delle chiamate sarebbe stato breve: probabilmente meno di un'ora per giungere a piazza Navona. Il racconto-intervista raccolto dal Corriere qui, nel quale si dice chiaramente che i militanti del PRC si sono portati nella piazza con il chiaro intento di "fare a botte". In questo servizio di Matrix un montaggio molto ben fatto sugli scontri di piazza Navona.

La scure sulle scuole private

Di Giorgio Vittadini per ilsussidiario.net (pubblicato su Il Riformista)

Una certa mitologia ideologica che sta alimentando lo sciopero del 30 e che viene ad arte replicata nelle manifestazioni degli studenti, afferma che i tagli alla scuola pubblica sono fatti per finanziare la scuola privata. Ma non è così. Nel “Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2009 e il bilancio pluriennale per il triennio 2009-2011” la voce complessiva riguardo l’istruzione è aumenta di 656milioni di euro: all’istruzione primaria andranno oltre 242milioni di euro in più, all’istruzione secondaria di primo grado 228milioni di euro in più, all’istruzione secondaria di secondo grado 395milioni di euro in più. Invece, il capitolo di bilancio riguardo l’istituzione scolastica non statale passa dai 535milioni e 318mila euro del 2008 ai 401milioni e 924mila euro per le previsioni del 2009, ovvero 133milioni e 393mila euro in meno. Inoltre, la voce “istruzione non statale” prevede per il 2010 una cifra pari a 406milioni e 121mila euro e per il 2011 la cifra di 312milioni e 410mila euro.

C’è da precisare inoltre che la riduzione non riguarda le scuole medie e superiori, ma la scuola materna e la scuola elementare, livelli di scuola che hanno sempre ricevuto fondi statali. Sono scuole gestite da ordini religiosi o cooperative di famiglie, situate nei quartieri periferici e nei paesi a cui molte famiglie “del popolo”, spesso poco abbienti, mandano i figli perché sanno che vengono assicurati nello stesso tempo un’educazione ricca di ideali ed un alta qualità di insegnamento. Accolgono infatti ben 531.258 bambini su 1.652.689 della scuola dell’infanzia e 196.776 su 2.820.150 bambini della scuola primaria. Determinate è il loro contributo al buon livello qualitativo raggiunto dalla scuole materne ed elementari italiane, sancito dalle inchieste internazionali.

Tuttavia, alla faccia della parità giuridica sancita dal ministro Berlinguer, non solo non si mette in programma di garantire l’effettiva libertà delle famiglie di scegliere le scuole paritarie attraverso detrazioni e deduzioni fiscali, ma le si vuole affossare definitivamente attraverso questi tagli di fondi che costringeranno le scuole ad aumentare le rette aggravando ulteriormente la situazione delle famiglie o addirittura a chiudere.

La legge 133/08 impone di ridurre il debito pubblico nazionale senza ricorrere all’aumento della pressione fiscale, rispettando così gli accordi internazionali e quindi i tagli anche per il comparto dell’istruzione sono inevitabili. Tuttavia, ogni ministero può decidere liberamente come effettuare i tagli ed è quindi ancora possibile correggere questa scelta, tanto più che il taglio medio imposto dal Ministero del tesoro a ogni ministero è del 10%, mentre i tagli previsti per la scuola libera sono del 25-30%! Per questo 40 deputati della maggioranza hanno firmato un emendamento che propone di effettuare riduzioni di spesa del Ministero della pubblica istruzione in settori meno strategici. Sono pronti a votarlo anche molti deputati dell’opposizione, consci che si tratta di battaglia bipartisan di tante famiglie per la difesa della “biodiversità” della scuola italiana. Chi, sia nel mondo cattolico che in quello laico, si astiene dal prendere posizione, sia conscio di collaborare all’ulteriore desertificazione della scuola italiana, per il male di tutti.

La posizione della maggioranza degli studenti non fa più notizia

Di Stefano Verzillo per ilsussidiario.net

Venerdì scorso il Ministro Gelmini ha convocato i rappresentanti dei principali gruppi organizzati degli studenti di scuola e università. Anche il Coordinamento Liste per il Diritto allo Studio (CLDS), che attualmente rappresenta la maggioranza degli studenti in seno al Consiglio Nazionale Studenti Universitari (CNSU) del quale esprime pure il Presidente, è stato interpellato.

I quotidiani che hanno riportato le dichiarazioni espresse dai vari gruppi, hanno omesso tuttavia di riferire proprio la posizione del CLDS. Come mai? Approfitto di questo spazio sul Sussidiario per chiarire una volta di più qual è il nostro orientamento circa l’attuale situazione dell’Università.

È pieno diritto di ciascuno discutere e pronunciarsi a riguardo di una legge che presenta evidenti ripercussioni sulla situazione finanziaria dell’università. Lo abbiamo fatto noi per primi in un lungo comunicato del 17 luglio e nuovamente il 10 ottobre con un comunicato che recava come titolo una frase del Presidente Napolitano: “Scelte coraggiose di rinnovamento: non sono sostenibili posizioni di pura difesa dell'esistente”.

Sappiamo bene che la situazione è tutt’altro che rosea. Come tutti siamo preoccupati per il destino della nostra università. Ma riteniamo profondamente intollerabile e ingiusto che una parte (di qualunque parte si tratti) imponga il proprio pensiero e la propria volontà a tutti gli altri.

Consideriamo pertanto inaccettabili, perché lesivi della libertà di tutti, i tentativi di occupare le facoltà e di bloccare il regolare svolgimento delle attività didattiche.

Riteniamo inoltre che la gran parte delle proteste sia largamente strumentalizzata per finalità che nulla hanno a che vedere con i problemi reali dell’Università e che tutto ciò dia luogo alla cristallizzazione di un clima di sterile contrapposizione.

Da parte loro molti media concorrono ad aggravare la situazione, sollevando fumosi polveroni e distorcendo la realtà dei fatti (basti citare quanto riportato da certi giornali sulla situazione di scienze politiche della statale di Milano, dove i manifestanti non superavano le 30 unità).

Noi non siamo disponibili a nessuna strumentalizzazione, da qualunque parte essa venga. Peraltro, continuare ad alimentare un clima di contrapposizione ideologica è l’ultima cosa di cui l’università ha bisogno in questo momento, il modo migliore per non affrontare i problemi e per non mettere mano a un disegno riformatore.

Come ha detto il Prof. Decleva, Presidente della CRUI, «la preoccupazione numero uno è che chi vuole le riforme veramente si trovi schiacciato da un lato dai tagli previsti dal Governo e dall’altro da forme di protesta che hanno altre motivazioni di fondo». «È l’ora di mettersi attorno a un tavolo e discutere nel merito – sottolineo: nel merito – del problema, lasciando alle spalle fatue contrapposizioni ideologiche. Sono convinto che esistano margini per interventi riformatori» (Il Giornale, 21.10.08).

In questo momento di caos, occorre salvaguardare a tutti i costi il diritto dei docenti ad onorare il loro impegno didattico e quello degli studenti a seguire i corsi e a studiare.

Chiediamo che le autorità accademiche, respingendo con chiarezza le posizioni prepotenti di alcuni (studenti o docenti che siano), tutelino la volontà di una maggioranza ben riconoscibile, che desidera continuare a lavorare e affrontare i problemi con strumenti e modalità che rispettino la libertà di tutti. Al ministro Gelmini (glielo abbiamo già detto venerdì) e al Governo chiediamo che si affrontino con urgenza e nel merito i molti problemi sul tappeto, a partire da quelli finanziari.

(Stefano Verzillo - Presidente del CLDS)

mercoledì 29 ottobre 2008

L'OCSE boccia la scuola italiana

Di Salvo Intravaia per repubblica.it

ROMA - L'Ocse boccia la scuola italiana. Stando ai numerosi dati contenuti nel rapporto dal titolo Education at a glance 2006 (uno sguardo sull'Istruzione 2006) il sistema di istruzione nazionale risulta troppo costoso se paragonato agli scarsi risultati che riesce a produrre. Un sistema nella sostanza inefficiente che richiede un approfondito restyling. Scuola, istruzione post-secondaria e università arrancano, sfornano studenti che non riescono reggere il confronto con i compagni degli altri 30 paesi aderenti all'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico e laureati che spesso restano disoccupati. Ma il ponderoso volume di 465 pagine ricche di tabelle, grafici e numeri pubblicato qualche giorno fa (con dati aggiornati al 2004), attraverso il confronto fra i diversi sistemi di istruzione dei vari paesi, consente di individuare alcuni dei possibili mali che affliggono la scuola italiana e anche una possibile via d'uscita.

Il grado di istruzione del popolo italiano. Secondo l'Ocse, l'Italia è al penultimo posto per numero di laureati: appena 11 su cento persone di età compresa fra 25 e 64 anni. Solo la Turchia è sotto di noi, ma veniamo sopravanzati perfino dal Cile e dal Messico. I paesi asiatici (Giappone e Corea) ci surclassano (37 e 30 rispettivamente), così come Stati Uniti e Australia. Situazione non cambia prendendo in considerazione i giovani laureati di età compresa fra i 25 e i 34 anni. E il divario fra l'Italia e la media dei paesi dell'Unione europea (a 19 stati) si amplia per numero di laureati nelle facoltà scientifiche: 1.227 ogni 100 mila giovani fra i 25 e i 34 anni contro i 2.128 della media Ocse. Le cose non cambiano molto se si passa ai 'semplici diplomati: siamo in fondo alla classifica (appena 48 su 100) con una media Ocse che si attesta sui 67 ogni 100 abitanti di età compresa fra i 25 e i 64 anni.

Le performance degli studenti. Per testare l'efficacia dell'azione educativa dei paesi membri l'Ocse confronta i risultati ottenuti dagli alunni quindicenni nei test Pisa-Ocse (Programme for International Student Assessment: programma per la valutazione internazionale dell'allievo). Le performance dei ragazzi italiani in Matematica e Lettura sono decisamente scarsi. I nostri alunni rimediano una figuraccia anche rispetto ai loro coetanei irlandesi, neozelandesi e polacchi.

Alunni, docenti e classi. Eppure, in Italia, le condizioni per fare funzionare la 'macchina scolasticà sembrano esserci tutte: le classi sono mediamente meno affollate rispetto alle altre realtà europee e non (18 alunni per classe in Italia contro i 21,5 della media Ocse), il numero medio di ore di lezione rivolte agli alunni è più alto che negli altri paesi membri e il rapporto alunni insegnanti è favorevole: 11 alunni per insegnante nelle scuole superiori, contro i 13,3 della media Ocse.

I costi. Sono probabilmente questi fattori più favorevoli in Italia (rapporto alunni docenti e alunni classi) che fanno lievitare i costi dell'istruzione italiana. Prendendo, infatti, in considerazione i 13 anni del percorso scolastico dalle elementari al superiore, si arriva ai 100 mila dollari per alunno, 23 mila in più della media (pari a 77 mila dollari).

Gli investimenti. Fino al 2004 gli investimenti indirizzati verso la scuola e l'università - sia in termini di percentuale sulla spesa pubblica totale e in rapporto al Pil - ci vedono al di sotto della maggior parte dei paesi, superati anche da Islanda, Canada, Messico e Portogallo. E gli investimenti nella scuola dell'infanzia (l'ex scuola materna), vera leva strategica secondo la Commissione europea, in base al rapporto Ocse dal titolo Starting strong II sono irrisori: appena lo 0,4 per cento del Pil.

I mali della scuola italiana. Ma se costa tanto, perché allora 'l'elefante italiano non va? Le migliaia di numeri messi a disposizione dal Rapporto consentono di azzardare qualche ipotesi. Gli insegnanti italiani percepiscono salari decisamente bassi rispetto ai loro colleghi stranieri e per arrivare al massimo dello stipendio devono stare in cattedra ben 35 anni, contro i 25 della media Ue. In Italia il tempo dedicato alle elezioni con gli alunni, 33 settimane o 674 ore l'anno (per la scuola media), sembrano poca cosa se confrontati con le organizzazioni scolastiche degli altri paesi. Solo a titolo di esempio, nell'Unione europea, le settimane che i ragazzini trascorrono a scuola sono 37 e le ore di lezione 1.019. Tutte considerazioni che rilanciano la proposta del vice premier, Francesco Rutelli, di spalmare le vacanze degli insegnanti italiani nell'intero anno solare, anziché mantenerle concentrate in estate. E ancora, i docenti nostrani sono tra i più anziani in assoluto: solo 1 su mille ha meno di 30 anni. Nelle altre realtà si supera agevolmente in tutti i segmenti scolastici il 10 per cento. E, a sorpresa, nelle scuole scarseggiano anche computer (77 per scuola, contro i 115 dei paesi Ocse) e i collegamenti a internet.

La speranza. Ma una delle novità contenute nella versione 2006 del Rapporto può rappresentare una occasione da non perdere. Entro il 2015, secondo l'Ocse, l'Italia, subirà un calo della popolazione scolastica (tra il 10 per cento della materna e il 4 delle superiori) che avrà un impatto positivo sulla spesa per l'istruzione. La sola diminuzione degli alunni dovrebbe, secondo l'Ocse, consentire un risparmio del 6 per cento che, in tempi di magra, non è poca cosa.

Il monito. La scuola italiana deve essere più efficiente per reggere il confronto con le altre economie mondiali. Ma il Commissario europeo per l'istruzione, la formazione, la cultura e il multilinguismo, Ján Figel', avverte: "Sistemi d'istruzione e di formazione efficienti possono avere un notevole impatto positivo sulla nostra economia e società ma le disuguaglianze nell'istruzione e nella formazione hanno consistenti costi occulti che raramente appaiono nei sistemi di contabilità pubblica. Se dimentichiamo la dimensione sociale dell'istruzione e della formazione, rischiamo di incorrere in seguito in notevoli spese riparative".

I Genitori dalla Gelmini: incontro positivo

Fonte notizie.alice.it

Roma, 28 ott. (Apcom) - Un incontro positivo e costruttivo al quale però dovrà seguire una nuova fase di consultazione permanente tra le parti, in particolare in fase di scrittura dei regolamenti del decreto. Le associazioni dei genitori del mondo della scuola (Moige, Agesc, Age, Cgd) hanno incontrato oggi a viale Trastevere il ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini per discutere del contestatissimo decreto che porta la sua firma.

"L'incontro con il ministro Gelmini si è svolto in un clima sereno e si è concluso positivamente: la riforma rappresenta un punto di partenza ottimo per ricostruire tutto il comparto scuola e abbiamo ricevuto dal ministro delle rassicurazioni anche in merito alla questione del tempo pieno", spiega Maria Rita Munizzi (presidente Moige): "Possiamo, infatti, affermare che con questa riforma finirà la lotteria e la lotta di migliaia di genitori per poter accedere al tempo pieno nella scuola".

"Il ministro - spiega ancora Munizzi - ha rassicurato noi genitori su questo punto, poiché attraverso la riforma il tempo pieno sarà aumentato al 50%, consentendo così ad una classe su due di poterne usufruire".

Anche per Maria Grazia Colombo (presidente nazionale Agesc) la riunione è andata "molto bene: è stato un momento costruttivo e importante, ora il problema sarà l'attuazione e il regolamento del decreto su cui il ministro ha chiesto che come genitori facciamo da ponte di informazione verso le famiglie. Abbiamo esposto alcuni punti critici sulla confusione generata sul tempo pieno e anche su questo Gelmini ha assicurato che in fase di scrittura dei regolamenti ci sarà meno confusione".

Quanto agli scioperi e ai cortei, per l'Agesc è "legittimo contestare, ma bisogna rimettere al centro la questione scuola, che va affrontata nelle istituzioni: c'è stata una mancanza di voler capire fino in fondo quello che diceil decreto, un po' di pregiudizi che hanno creato allarmismi".

Secondo Davide Guarneri (presidente Age) "è positivo che si sia ripreso un dialogo, che è stato molto sereno: il ministro ha riconfermato che non verrà ritirato il decreto, il resto lo vedremo negli aspetti attuativi e su questo c'è impegno di tutti ad aprire una consultazione permanente. Abbiamo posto anche numerose domande e preoccupazioni, soprattutto per capire quale sia la scelta educativa e pedagogica di fondo del decreto e se non ci sia solo una lettura economica, perchè tutto ci sembra derivare solo dai tagli previsti dalla legge 133. Oltre ai risparmi - prosegue Guarneri - vogliamo ragionare sulla valorizzazione degli istituti. Soddisfazione anche per il tempo pieno: la scuola svolge anche una funzione sociale e abbiamo chiesto maggiore chiarezza. Gelmini ci ha assicurato che le ore saranno molteplici".

Infine per Angela Nava (presidente Cgd) l'incontro ha avuto gli "esiti prevedibili: come Coordinamento abbiamo chiesto di ritirare il decreto, che ovviamente va avanti. Il ministro ha aperto però la strada al dialogo e abbiamo così reiterato la nostra disponibilità ad esserci quando verranno scritti i regolamenti attuativi. Sapendo bene che la politica va avanti per altri canali".

1000 studenti a lezione, 18 si oppongono e il Preside chiude e va in Messico

Fonte ilsussidiario.net

Il Consiglio di Facoltà di Scienze Politiche di giovedì 23 ottobre non ha votato alcuna forma di sospensione della didattica come invece appare in alcuni quotidiani nazionali. Al contrario, docenti e rappresentanti degli studenti hanno votato all’unanimità una mozione che auspica che «si sensibilizzi maggiormente il corpo studentesco e l’opinione pubblica (...) per evitare che prevalga l’immagine degli atenei come campi di battaglia».

L’Università oggi è effettivamente aperta. Vi sono docenti che oggi faranno lezione, ricevimento studenti, esami. Tanti altri l’avrebbero voluto fare, ma non “osano” mettersi contro il volere del preside. Se non sarà possibile svolgere alcuna attività didattica è solo per una decisione presa unicamente dal preside, partito per il Messico, senza il parere del Consiglio di Facoltà, per prevenire, così ha detto, l’intervento violento e antidemocratico di pochi. I soliti pochi che hanno avuto spazio nei servizi delle ultime settimane. Perché? C’è forse un “doppio fine” nel far credere che la protesta stia montando?

Negli ultimi due giorni c’è stata una raccolta di firme a Scienze Politiche. Si tratta di una petizione contro qualunque forma di sospensione della didattica, nella speranza che i mezzi di informazione dicano ciò che sta accadendo veramente in università. Risultato: 1025 firme raccolte in due giorni. Ci chiediamo allora: perchè vale di più lo sparuto gruppo di chi vuole interrompere le lezioni? (Si tratta infatti di 18/20 studenti iscritti a questa facoltà: tutti gli altri vengono da fuori). C’è forse un “doppio fine” nel far credere che la protesta stia montando?

All’università chi ci pensa? Paradossalmente a fare le spese di questa situazione è proprio l’università. Chi vuole veramente lavorare a una riforma del sistema viene sistematicamente censurato.

(Lista aperta Obiettivo Studenti di Scienze Politiche, Milano)

Non salvate questa scuola

Di Susanna Tamaro per ilgiornale.it

Da venticinque anni vivo accanto al ministero della Pubblica Istruzione, in Viale Trastevere. Ogni autunno, al tempo della caduta delle foglie e della vendemmia, al tempo in cui le castagne cadono al suolo - quelle castagne che per decenni hanno popolato i sussidiari della scuola italiana - le grandi masse di studenti, come facessero parte del ciclico movimento della natura, cominciano ad agitarsi rumorosamente. L’autunno è ormai fisiologicamente la stagione degli scioperi e delle occupazioni. Cambiano i governi, cambiano i ministri, cambia vertiginosamente il mondo intorno, ma l’autunno resta il tempo della grande protesta. Quest’anno però l’usuale protesta ha assunto dimensioni abnormi e anche pericolose. Mai infatti era successo che scendessero in piazza i bambini delle elementari - azione gravissima - e che anche settori vasti e lontani dal mondo della scuola si mobilitassero in modo così virulento, come se si trattasse di uno scontro in cui è in gioco la sopravvivenza della civiltà. Il clima non è molto diverso da quello che ci fu al tempo della legge sulla fecondazione assistita. O sei di qua o sei di là. E se sei di là, sei un oscurantista, nemico del progresso e dell’uomo, una persona disprezzabile, da demonizzare e quindi io non prenderò mai seriamente in considerazione le tue idee, le tue riflessioni. A chi giova un clima del genere? A chi fa gioco impedire un discorso serio e maturo sul bene comune? Quello che deprime, in questa situazione, è l’alto livello di infantilismo, di immaturità. Mentre da una parte si cerca di risolvere un problema estremamente grave come quello della scuola, dall’altra si soffia irragionevolmente sul fuoco, fomentando antagonismi che nulla hanno a che vedere con la meditata proposta del programma. Salva la scuola, gridano migliaia di cartelli dai muri delle nostre città. Ma salvare cosa, da chi? Salvare quale scuola? Quella che produce ragazzi incapaci di esprimersi correttamente, che inzeppano i curricula vitae, le tesi, gli stessi concorsi della magistratura di strafalcioni che fanno inorridire? Quella che ci spinge agli ultimi posti dei livelli europei? Quella che ha istituito il demenziale sistema dei crediti e dei debiti formativi, delle miriadi di lauree che, se non fossero reali, provocherebbero minuti di serena ilarità? Ho frequentato le magistrali, arrivando anche a fare il concorso per insegnare perché ho sempre pensato che i primi anni di apprendimento fossero i più importanti e che dedicarsi a questo fosse una straordinaria avventura. Poi la vita mi ha portato in un’altra direzione, ma la passione non mi ha abbandonato. Scrivo libri per l’infanzia, inoltre ho quattro nipoti in età scolare e vivo con tre bambine che vanno alla scuola dell’obbligo. Per questo, posso dire che in Italia abbiamo ancora molte realtà straordinarie. Straordinarie per passione, per intelligenza, per creatività. E dove ci sono queste realtà, i bambini crescono appassionati, curiosi, aperti alla vita. Ma, accanto a queste che, ringraziando il cielo, non sono poche, si è insinuata, negli ultimi decenni, una volontà perversa dei legislatori che sembra avere l’unico scopo di complicare le cose semplici. La scuola elementare si chiama così, appunto, vorrei ricordarlo, perché deve insegnare gli «elementi base». Ad un certo punto però, agli illuminati riformatori, è parso che proprio questa scuola andasse modernizzata, «liceizzata», adeguata, cioè, alla complessità di informazione di questi tempi. La semplicità, l’essenzialità, la sobrietà andavano cancellate nel nome della modernità. Un bambino proiettato nel futuro, nei tempi meravigliosamente complessi che viviamo, non poteva avere quelle scarse nozioni ottocentesche che sono state la spina dorsale dell'educazione di intere generazioni. E così, ogni giorno, vedo uscire la piccola Martina piegata da uno zaino che contiene ben otto libri. Otto libri per la seconda elementare? E allora noi che abbiamo studiato sull’unico sussidiario, siamo tutti ignoranti? Tempo fa un padre, preoccupato, mi diceva: «Mia figlia sa tutto sulle piogge acide ma non ha la minima idea di cosa siano i decilitri e i millilitri». Certo, ci sono bambini estremamente informati, ma informati vuole dire preparati? E soprattutto, in un mondo che già bombarda informazioni, i bambini hanno bisogno di altre informazioni? O hanno bisogno piuttosto del sapere? In Europa siamo agli ultimi posti come preparazione scientifica. Come è possibile, mi chiedo, dato che ormai, per insegnare matematica alle elementari, bisogna avere una laurea? Una persona più preparata, di solito dovrebbe creare bambini più preparati, mentre sono sempre più confusi. «Segnala le entità equipotenti», ho trovato scritto nel libro di una mia nipotina di prima elementare. Lei mi guardava con sguardo smarrito chiedendo aiuto e io ho risposto con uno sguardo altrettanto smarrito. A un’altra, già in seconda, ho chiesto: «Quanto fa 1+1?» e lei trionfante ha risposto: «11». Eppure io, in prima elementare, avevo imparato che una ciliegia più una ciliegia fa due ciliegie e non ho mai avuto dubbi su questo. Perché tanta paura della semplicità, perché tanta paura della chiarezza? Forse perché si è perso di vista cosa vuol dire educare: dal latino ducere, vuol dire «condurre». Ma per condurre devo sapere qual è la direzione verso cui tendo. Se non so dove sto andando, se non so qual è la mia meta, come posso guidare le persone che mi sono affidate? Educare non vuol dire intrattenere, ma dare a un bambino i fondamenti etici sui quali potrà costruire la sua complessità di persona. Credo che una delle grandi emergenze di cui si parli poco, per non dire affatto, sia la precaria condizione del sistema nervoso dei bambini che vivono in questi tempi. Il loro cervello, spesso affidato a delle suadenti balie elettroniche, è sottoposto a una continua eccitazione di stimoli diversi. È proprio questa stimolazione forsennata, quest’abitudine a fare zapping che frantuma in loro qualsiasi possibilità di attenzione. E che cos’è l’uomo senza attenzione? Qualsiasi cosa io voglia fare - dal falegname all’astronauta, a scrivere una lettera d’amore - ho bisogno assoluto di attenzione e di concentrazione, devo saper collegare i gesti e sapere che, senza quel collegamento, non ottengo nulla. Oltre alla semplicità, all’altare della modernità abbiamo anche sacrificato l’idea che esista una natura umana e che questa natura vada rispettata e aiutata nella sua crescita. Per questo penso che togliere il maestro unico sia stata una grandissima stupidaggine come quella, tra l’altro, di abolire le magistrali. Un essere umano, per crescere, ha bisogno di stabilità, di certezze, di silenzio, solo così può riuscire a formarsi un suo pensiero e non sarà un docile soldatino nelle mani dei grandi manipolatori. La natura umana si forma nello sforzo, nella fatica, nell’idea che lo sforzo e la fatica siano passaggi fondamentali per crescere e imparare. Se non mi sforzo, se non mi applico, se non passo attraverso le forche caudine della noia, non sarò mai capace di costruire niente. E contro chi va questa confusione di intenti, questa mancanza di preparazione, se non contro le persone che un giorno saranno adulte e che avranno carenze nell’esprimersi? Saranno loro a pagarne il prezzo, perché il bambino incerto nelle nozioni della scuola elementare, sarà ancora più incerto alle medie e, alle superiori, costruirà una casa fatta di carta, pronta a volar via al primo soffio di vento. Ma un giorno la scuola e l’università finiranno, ci sarà l’incontro con il mondo del lavoro e con quali mezzi potranno affrontare un momento così importante? Come faranno a inserirsi in una società che è stata mostrata loro unicamente come antagonista? Non si tratta, a mio avviso, di essere di destra o di sinistra - io, ad esempio, ero molto negativa sulla riforma Moratti - ma di avere il coraggio di osservare la realtà e di affrontarla con quel sentimento così desueto ormai ma così importante che si chiama buonsenso e, assieme a quell’altro sentimento altrettanto lontano dai nostri giorni, che si chiama buona volontà, cercare di lavorare insieme per costruire, per una volta, il bene comune delle generazioni future alle quali finora abbiamo offerto degli esempi davvero pessimi.

I numeri sulla scuola: quando l'errore è bipartisan

Nessun blogger che si rispetti può permettersi di difendere un partito oppure una legge pensando soltanto a smascherare gli errori dell'avversa parte politica. Ecco dunque che riprendo uno studio pubblicato da Tutto Scuola nel quale si evidenziano gli errori di calcolo forniti da maggioranza ed opposizione nei loro famosi "dossier". Ovviamente rimane molto più grave l'errore di quest'ultima, che nel tentativo di smascherare gli errori del Governo non sa neanche quant'è il 50% di un numero, ma tant'è. Ecco il comunicato ed il link per scaricare lo speciale che consta di poche pagine in formato tabellare, molto utili e molto chiare.

Lo studio di Tutto Scuola sulle cifre del Governo e su quelle dell'opposizione

Tuttoscuola riporta e mette a confronto, in un apposito studio scaricabile dal sito www.tuttoscuola.com, tutte le imprecisioni, le forzature e anche i veri e propri errori contenuti nel dossier sulla scuola "Tutte le bugie della sinistra", presentato lo scorso 22 ottobre dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e dal ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini, e nel controdossier pubblicato poche ore dopo dal Partito democratico "Tutte le bugie del premier sulla scuola".

Le voci considerate dalla rivista sono tempo pieno, numero degli alunni per classe, maestro unico, insegnamento dell'inglese, razionalizzazione del personale, insegnanti di sostegno, scuole di montagna, voto di condotta, spesa per il personale. Per ognuna si confrontano e commentano i dati.

Non può che essere un errore, quasi un autogol, quello in cui incorre il governo a proposito di tempo pieno: parla di un aumento di 5.750 classi (+17%), anziché di 15.750, assai più vicino al +50% annunciato dal presidente Berlusconi. In un'altra slide, parla di 3.950 classi in più "in cinque anni": una imprecisione (quello è l'aumento previsto nel quinto anno, e non nel quinquennio), che nel controdossier del PD viene presa in considerazione come se fosse la posizione ufficiale del governo.

Altro esempio di forzatura, se non di confusione dei dati, è quello che riguarda il numero di allievi per docente, che secondo il governo è di 9, mentre il realtà è di 11. La slide del governo (il dossier è ancora on line sul sito governo.it a questo indirizzo) confonde due indicatori diversi: il rapporto docenti/alunni (quanti alunni per ogni docente) con il numero di docenti ogni 100 alunni.

Il dossier del PD (tuttora on line su partitodemocratico.it a questo indirizzo) sostiene che per aumentare del 50% l'attuale numero di classi a tempo pieno (34.270) sarebbe necessario istituire ulteriori 14.000 classi a tempo pieno (mentre il 50% di 34.270 è 17.135).

Sul taglio degli 11.200 insegnanti elementari specialisti di inglese che torneranno a fare i maestri, man mano che i maestri ordinari acquisiranno le competenze per insegnare anche l'inglese, il controdossier del PD mette in rilievo critico questa misura, ma omette di precisare che essa era stata già prevista dal governo Prodi, che l'aveva inserita nella legge Finanziaria 2007.

Infine, dal confronto tra i dossier di governo e opposizione si ricava anche come in alcuni casi dati corretti vengano presentati in contrapposizione, quasi in un dialogo tra sordi, di cui resta penalizzato chi ascolta, che non capisce da quale parte stia la verità.

Un esempio di ciò lo si trae dalla percentuale della spesa per il personale: il dossier del PD contesta che sia il 97%, come dice il governo, e cita il dato OCSE dell'80,7%. Ma le due parti non spiegano che sono due modi diversi di valutare la spesa. Se si esamina la spesa del solo ministero dell'Istruzione, l'incidenza della spesa per il personale è del 97%. Se nel computo si includono anche le spese di altri soggetti istituzionali, dalle Regioni ai comuni (spesa complessiva per l'istruzione) l'incidenza dei costi del personale si abbassa ai valori dell'80,7%. Si tratta di indicatori diversi, entrambi corretti se si spiega a cosa si riferiscono.

Questi sono solo alcuni esempi di uso approssimativo dei dati, di mancata verifica o di poco corretta interpretazione delle informazioni, frutto dello spirito di parte con il quale si è parlato di scuola in questi giorni di forti contrapposizioni politiche e sociali.

Tuttoscuola si augura che, fatta chiarezza sui termini reali dei problemi, il dibattito possa riprendere quota e svolgersi ad un livello qualitativamente paragonabile a quello raggiunto in Italia in altre occasioni. Al nostro Paese serve un recupero di qualità del confronto politico e sociale in un momento di così profonda crisi del ruolo e della legittimazione sociale del sistema educativo nazionale, non guerre sui dati o sui grembiuli.

Fonte: www.tuttoscuola.com

martedì 28 ottobre 2008

Cosa prevede la finanziaria 2009 per l'istruzione

Il dibattito degli ultimi tempi si è affossato da una parte sulla legge 133 e dall'altra sul DL 137 attualmente in fase di conversione in legge presso il Parlamento. La maggior parte delle persone ne hanno parlato in termini impropri, utilizzando espressioni come "riforma" oppure accostando la razionalizzazione scolastica ai licei ed all'università, che non vengono minimamente toccati se non a livello finanziario.

Tuttavia attualmente è in discussione il "Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2009 e bilancio pluriennale per il triennio 2009-2011", meglio conosciuto come legge finanziaria. L'iter parlamentare porta il numero 1714 ed è attualmente alla Camera dei Deputati per la prima lettura. È estremamente probabile che gli ambiti di manovra siano piuttosto ristretti, quindi non ci saranno stravolgimenti né rispetto alle linee guida del DPEF né tanto meno rispetto alla stesura attualmente in via d'approvazione.

Cosa dice la manovra finanziaria del Governo? A mio avviso, cose estremamente interessanti che vale la pena di approfondire. La parte che riguarda l'istruzione è la tabella 7, centinaia di pagine per un totale di 26Mb in formato pdf. Innanzitutto va specificato che l'attuale Ministero per l'Istruzione, l'Università e la Ricerca riassomma a sé ciò che nel Governo Prodi II era stato scisso in due dicasteri, l’ex Ministero della pubblica istruzione e l’ex Ministero dell’università e della ricerca scientifica, con le inerenti risorse finanziarie, strumentali e di personale. Le risorse finanziarie sono state allocate sulla base della classificazione in missioni di spesa (in poche parole, le missioni rappresentano le funzioni principali e gli obiettivi strategici perseguiti con la spesa pubblica). Per quanto riguarda il Ministero di nostro interesse, le missioni individuate sono 6, e ricalcano quelle degli anni passati.

Partiamo da un dato: l'ammontare di cassa per l'anno 2009 è 55.349€, di 53.657€ per il 2010 e di 51.929€ per il 2011. Se la matematica non inganna, lo sforbiciamento per il Ministero ammonta a 3.420 nel prossimo triennio e non 8.000. Le riduzioni operate sulle dotazioni di spesa in relazione all’art 60, comma 1, del DL 112/2008 - già scontate nel bilancio triennale - ammontano per il 2009 a 447 milioni di euro; per il 2010 a 456,4 mln di euro e per il 2011 a 790,1 mln di euro.

Per quanto riguarda la scuola primaria, si registra un aumento della spesa per il 2009 rispetto al 2008: da 43.120€ a 43.776€.

In relazione invece all'istruzione universitaria, si registra un minimo decremento della spesa che passa dagli attuali 8.683€ a 8.549€ nel 2009. Si tratta dunque di un assestamento assolutamente minimale, che cerca di andare incontro alle esigenze di ripartizione delle risorse, peccato che questo particolare non venga sollevato dai Rettori.

Relativamente alle due principali missioni in oggetto si segnala quanto segue. Alla Missione Istruzione scolastica è assegnata la dotazione di 43.776,6 milioni di euro (pari al 79,1% dello stanziamento del Ministero), con incremento di 2313,2 milioni di euro rispetto alla legge di bilancio 2008. Lo stanziamento complessivo per la missione Istruzione universitaria è pari a 8.549,3 mln di euro (pari al 15,4% dello stanziamento del Ministero), con una riduzione di 133,5 milioni di euro (-1,5%) rispetto al bilancio 2008. In quest'ultimo ambito, 7.955€ sono dedicati al capitolo 2.3 inerente la formazione universitaria e post-universitaria, di cui 7.878€ stanziati per la voce 2.3.2, che comprende anche il famoso FFO (il fondo di finanziamento ordinario con il quale vivono le università pubbliche), il quale con 6933,6 milioni di euro registra un incremento di 67,9 milioni di euro rispetto al 2008.

Cosa significa questo in poche parole? Che praticamente per il prossimo anno il Governo non ha toccato quasi nulla, mantenendo sostanzialmente invariate le risorse anzi in alcuni casi aumentandole. Di cosa si lamentano i Rettori se l'FFO per il 2009 è addirittura aumentato rispetto a quest'anno? Di quali mirabolanti tagli parlano che impedirebbero addirittura l'acquisto del gesso per scrivere sulle lavagne?

In realtà, la famosa "scure" che si sarebbe abbattuta sul mondo dell'istruzione comincerà a lavorare soltanto dal 2010: questo significa che ci sarà un anno di tempo per trovare il modo di tagliare saggiamente, eliminare gli sprechi inutili, trovare magari ulteriori risorse (il famoso fondo di finanziamento straordinario annunciato in estate dalla Ministro Gelmini) e soprattutto mandare a compimento tutte le nuove leggi sul mondo dell'istruzione attualmente in preparazione, in particolare l'oramai attesissima riforma del mondo universitario. Nessuna persona dotata di un livello di quoziente intellettivo minimale può pensare che la spesa programmata oggi per il 2013 è da considerarsi invariabile, perché come ogni uomo onesto sa, l'economia vive giorno per giorno di variabili incredibili, quindi lamentarsi oggi dei tagli per il 2013 è da incoscienti.

Il discorso sarebbe molto più articolato e le voci all'interno della finanziaria sono molto particolari e specifiche: quello che è stato qui presentato riguarda espressamente le due voci principali sulle quali dibatte l'opinione pubblica attualmente.

Tutto il resto è fuffa...

NB: laddove non specificato, le cifre sono espresse in milioni di euro

lunedì 27 ottobre 2008

Università, il business dei laureati precoci

Di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella per corriere.it

Tasic, un serbo di 19 anni, è finito su tutti i giornali del mondo perché, partito per l'America per studiare, ha preso la laurea e pure il dottorato in otto giorni? Noi italiani, di geni, ne abbiamo a migliaia. O almeno così dicono i numeri, stupefacenti, di alcune università. Numeri che, da soli, rivelano più di mille dossier sul degrado del titolo di «dottore». I «laureati precoci», studenti straordinari che riescono a finire l'università in anticipo sul previsto, ci sono sempre stati. È l'accelerazione degli ultimi anni ad essere sbalorditiva. Soprattutto nei corsi di laurea triennali, dove i «precoci» tra il 2006 e il 2007, stando alla banca dati del ministero dell'Università, sono cresciuti del 57% arrivando ad essere 11.874: pari al 6,83% del totale. Tema: è mai possibile che un «dottore» su 14 vada veloce come Usain Bolt? C'è di più: stando al rapporto 2007 sull'università elaborato dal Cnvsu, il Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario, quasi la metà di tutti questi Usain Bolt, per la precisione il 46%, ha preso nel 2006 l'alloro in due soli atenei. Per capirci: in due hanno sfornato tanti «dottori» quanto tutti gli altri 92 messi insieme. Quali sono queste culle del sapere occidentale colpevolmente ignorate dalle classifiche internazionali come quella della Shanghai Jiao Tong University secondo cui il primo ateneo italiano nel 2008, La Sapienza di Roma, è al 146˚ posto e Padova al 189˚? Risposta ufficiale del Cnvsu: «Stiamo elaborando i dati aggiornati per la pubblicazione del rapporto 2008. Comunque i dati sui laureati sono pubblici e consultabili sul sito dell'ufficio statistica del Miur». Infatti la risposta c'è: le culle del sapere che sfornano più «precoci» sono l'Università di Siena (494ª nella classifica di Shanghai) e la «Gabriele D'Annunzio» di Chieti e Pescara, che non figura neppure tra le prime 500 del pianeta. Numeri alla mano, risulta che dall'ateneo abruzzese, che grazie al contenitore unico di un'omonima Fondazione presieduta dal rettore Franco Cuccurullo e finanziata da molte delle maggiori case farmaceutiche (Angelini, Kowa, Ingenix, Fournier, Astra Zeneca, Boheringer, Bristol- Myers...), conta su una università telematica parallela non meno generosa, sono usciti nel 2007 la bellezza di 5.718 studenti con laurea triennale. In maggioranza (53%) immatricolati, stando ai dati, nell'anno accademico 2005-2006 o dopo. Il che fa pensare che si siano laureati in due anni o addirittura in pochi mesi. Quanto all'ateneo di Siena, i precoci nel 2007 sono risultati 1.918 su un totale di 4.060 «triennali»: il 47,2%. La metà.

Ancora più sorprendente, tuttavia, è la quota di maschi: su 1.918 sono 1.897. Contro 21 femmine. Come mai? Con ogni probabilità perché alla fine del 2003 l'Università firmò una convenzione coi carabinieri che consentiva ai marescialli che avevano seguito il corso biennale interno di farsi riconoscere la bellezza di 124 «crediti formativi». Per raggiungere i 148 necessari ad ottenere la laurea triennale in Scienza dell'amministrazione, a quel punto, bastava presentare tre tesine da 8 crediti ciascuna. E il gioco era fatto. Ma facciamo un passo indietro. Tutto era nato quando, alla fine degli anni Novanta, il ministro Luigi Berlinguer, adeguando le norme a quelle europee, aveva introdotto la laurea triennale. Laurea alla portata di chi, avendo accumulato anni d'esperienza nel suo lavoro, poteva mettere a frutto questa sua professionalità grazie al riconoscimento di un certo numero di quei «crediti formativi» di cui dicevamo. Un'innovazione di per sé sensata. Ma rivelatasi presto, all'italiana, devastante. Colpa del peso che da noi viene dato nei concorsi pubblici, nelle graduatorie interne, nelle promozioni, non alle valutazioni sulle capacità professionali delle persone ma al «pezzo di carta», il cui valore legale non è mai stato (ahinoi!) abolito. Colpa del modo in cui molti atenei hanno interpretato l'autonomia gestionale. Colpa delle crescenti ristrettezze economiche, che hanno spinto alcune università a lanciarsi in una pazza corsa ad accumulare più iscritti possibili per avere più rette possibili e chiedere al governo più finanziamenti possibili. Va da sé che, in una giungla di questo genere, la gara ad accaparrarsi il maggior numero di studenti è passata attraverso l'offerta di convenzioni generosissime con grandi gruppi di persone unite da una divisa o da un Ordine professionale, un'associazione o un sindacato. Dai vigili del fuoco ai giornalisti, dai finanzieri agli iscritti alla Uil. E va da sé che, per spuntarla, c'è chi era arrivato a sbandierare «occasioni d'oro, siore e siore, occasioni irripetibili». Come appunto quei 124 crediti su 148 necessari alla laurea, annullati solo dopo lo scoppio di roventi polemiche. Un andazzo pazzesco, interrotto solo nel maggio 2007 da Fabio Mussi («Mai più di 60 crediti: mai più!») quando ormai buona parte dei buoi era già scappata dalle stalle. Peggio. Perfino dopo quell'argine eretto dal predecessore della Gelmini, c'è chi ha tirato diritto. Come la «Kore» di Enna che, nonostante il provvedimento mussiano prevedesse che il taglio dei crediti doveva essere applicato tassativamente dall'anno accademico 2006-2007, ha pubblicato sul suo sito internet il seguente avviso: «Si comunica che, a seguito della disposizione del ministro Mussi, l'Università di Enna ha deciso di procedere alla riformulazione delle convenzioni» ma «facendo salvi i diritti acquisiti da coloro che vi abbiano fatto esplicito riferimento, sia in sede di immatricolazione che in sede di iscrizione a corsi singoli, nell'ambito dell'anno accademico 2006-2007».

Bene: sapete quanti studenti risultano aver preso la laurea triennale nell'ateneo siciliano in meno di due anni grazie ad accordi come quello con i poliziotti (76 crediti riconosciuti agli agenti, 106 ai sovrintendenti e addirittura 127 agli ispettori) che volevano diventare dottori in «Mediazione culturale e cooperazione euromediterranea»? Una marea: il 79%. Una percentuale superiore perfino a quella della Libera università degli Studi San Pio V di Roma: 645 precoci su 886, pari al 73%. E inferiore solo a quella della Tel.M.A., l'università telematica legata al Formez, l'ente di formazione che dipende dal Dipartimento della funzione pubblica: 428 «precoci» su 468 laureati. Vale a dire il 91,4%. Che senso ha regalare le lauree così, a chi ha l'unico merito di essere iscritto alla Cisl o di lavorare all'Aci? È una domanda ustionante, da girare a tutti coloro che hanno governato questo Paese. Tutti. E che certo non può essere liquidata buttando tutto nel calderone degli errori della sinistra, come ha fatto l'altro ieri Mariastella Gelmini dicendo che di tutte le magagne universitarie «non ha certo colpa il governo Berlusconi che, anzi, è il primo governo che vuol mettere ordine». Sicura? Certo, non c'era lei l'altra volta alla guida del ministero. Ma la magica moltiplicazione delle università (soprattutto telematiche), la corsa alle convenzioni più assurde e il diluvio di «lauree sprint», lo dicono i numeri e le date, è avvenuta anche se non soprattutto negli anni berlusconiani dal 2001 al 2006. E pretendere oggi una delega in bianco perché «non si disturba il manovratore», è forse un po' troppo. O no?

NB: forse Stella dovrebbe ricordare che nel 2001 la riforma era già attiva, e non certo grazie alla Moratti, che non poteva approvare una legge il giorno dopo l'insediamento del governo (ed in effetti la famosa riforma Moratti nel capitolo riguardante l'università è datata 2004). Il nome è noto a tutti, si chiama Berlinguer ad appartiene al blocco di sinistra. I professori entusiasti di quella riforma scoprirono che non funzionava soltanto quando al governo salì Berlusconi: altro caso strano della democrazia sinistrorsa italiana. Se poi le Università giocano con i decreti ed aggirano le norme di legge per privilegiare, intascare soldi, etc., tale colpa di malcostume non può essere attribuita soltanto a governi e/o ministri...

I voltagabbana del maestro unico

Di Michele Brambilla per ilgiornale.it

«Quando l’antica maestra intera si scisse nelle tre maestre per due classi, per ragioni sindacali contro il crollo demografico, si minò un pilastro della nostra convivenza». Ecco, non riuscivo a trovare le parole per esprimere quel che penso sulla questione del maestro unico, sui danni prodotti dalla sua abolizione, e perfino sulle ragioni («sindacali», non pedagogiche) che portarono alle tre maestre invece che una, e grazie al Cielo ho trovato un altro che aveva già messo in fila le parole giuste prima di me. Così, con una bella citazione, me la sono cavata senza faticare troppo. E sapete di chi è la frase sopra riportata fra virgolette? Di Mariastella Gelmini? Del leghista Roberto Cota? O addirittura del premier? No: sono parole di Sofri. Adriano Sofri. E sapete dove le ha scritte? Forse sul Foglio, che è un po’ berlusconiano? No: le ha scritte su Repubblica. E sapete quando le ha scritte? Forse anni fa, in un altro tempo e con un’altra scuola? No: le ha scritte il 3 giugno 2008. Meno di cinque mesi fa.

Per completezza di informazione: l’articolo di Sofri era pubblicato in prima pagina e s’intitolava «Ecco perché ci servono più maestre da libro Cuore». Sempre per completezza, Sofri prendeva spunto da due fatti: un articolo di Zagrebelsky («La democrazia ha ancora bisogno di maestri») e l’appello di una quarta elementare di Roma al ministero affinché non cambiasse la maestra, in età di pensione. Siccome quando si citano frasi altrui è sempre dietro l’angolo l’accusa di estrapolazioni selvagge, chiarisco che la frase citata all’inizio va inserita nel seguente contesto, che cito testualmente: «Zagrebelsky commemora i grandi maestri civili, soppiantati da televisione, pubblicità, moda: altrettante seduzioni facili, aliene dal suscitare i bravi discepoli senza i quali non compaiono i bravi maestri. Ma nel mondo che si perde la prima e decisiva formazione civile era l’opera delle maestre. Erano loro a insegnare a leggere e scrivere, a fare le operazioni, a dire le preghiere, a stare seduti e alzarsi in piedi. Il tramonto delle maestre può essere salutato come un capitolo dell’emancipazione femminile». E subito qui di seguito la frase citata all’inizio: «Ma quando l’antica maestra intera si scisse...».

Si potrebbe obiettare che Repubblica dispone di un ampio parco di grandi firme, e non è detto che quella di Sofri sia la posizione del giornale. Ok. Però, così, giusto per procedere sulla completezza d’informazione: pochi giorni prima, sempre sulla questione della quarta elementare romana che rischiava di cambiare maestra, Repubblica aveva affidato il commento a un altro suo esperto di scuola, Marco Lodoli. Il quale, dopo aver tratteggiato le qualità e l’importanza della vecchia maestra, scriveva: «Poi qualcuno ha deciso che la maestra doveva moltiplicarsi e da una è diventata tre, e tre maestre sono diventate un viavai di volti, abbondanza e confusione, e forse qualcosa si è guadagnato e di sicuro qualcosa si è perso». Notare il «forse» e il «di sicuro». Era il 27 maggio 2008, esattamente tre mesi e venti giorni prima che lo stesso Lodoli, sempre su Repubblica, così commentasse il progetto del governo di reintrodurre il maestro unico: «Le elementari, fiore all’occhiello del nostro sistema educativo, sono finite sotto l’accetta della ministra Gelmini, che per rispettare le esigenze di risparmio non ha immaginato nient’altro che la maestra unica: come dire suicidiamoci per consumare meno ossigeno». Era il 16 settembre 2008. Non è che vogliamo sottolineare, a proposito di maestrine dalla penna rossa, incoerenze e giravolte (nel caso di Sofri, tra l’altro, non risulta che abbia cambiato idea). Vogliamo solo esprimere lo stupore per l’attuale levata di scudi della sinistra contro il ritorno del maestro unico. Sono giorni che sentiamo demonizzare questa figura da pedagogisti che mai avevamo udito, prima, esprimersi in tal modo. Politici, giornalisti e genitori anti-Gelmini s’accodano. L’altra sera ad AnnoZero hanno parlato di «rischio di pensiero unico». Fosse un vecchio cavallo di battaglia della sinistra, capiremmo. Ma mai c’è stata, nella cultura della sinistra, l’esaltazione dei tre maestri, anzi. La loro introduzione fu motivata solo dalla volontà di salvare posti di lavoro, ma mai nessuno ne aveva esaltato l’efficacia. Al contrario, sono tantissime le testimonianze di una sinistra perplessa. Ortensio Zecchino, ministro dell’Università con D’Alema e Amato, al momento della riforma votò contro dicendo: «Non resta che prendere atto dell’esistenza di uno schieramento che ha inteso privilegiare il momento sindacale... svalutando il momento formativo e culturale». Ed Edgar Morin, consulente del ministro Fioroni proprio per la riforma della scuola, ha fatto dell’unitarietà dell’apprendimento il suo credo: «Il nostro sistema d’insegnamento - ha detto - separa le discipline e spezzetta la realtà, rendendo di fatto impossibile la comprensione del mondo». Chissà come mai, insomma, tanti repentini cambiamenti. Personalmente ho un ricordo fantastico e commovente, della mia maestra unica. Solo che fatico anche qui a trovare le parole. Le prendo in prestito: «La figura della maestra campeggia nella nostra memoria come un totem sacro, è l’asse attorno al quale ha girato la nostra infanzia, fu la solenne e dolce depositaria di ogni sapere, quella che ci ha insegnato gli affluenti del Po e le divisioni a tre cifre, le Guerre Puniche e le poesie di Pascoli, ci ha aiutato a crescere nella pace di un tempo immobile e fecondo. (...) L’infanzia ha bisogno di certezze (...) se l’amata maestra dopo quattro anni scompare, allora tutto può svanire». Chi ha scritto queste belle parole? Ma sempre Marco Lodoli, sempre su Repubblica. Sembra ieri, invece erano ben cinque mesi fa.

A chi fa comodo il disastro della scuola

Di Luigi Amicone per ilgiornale.it

Potete scommetterci. Da quello che sento in giro dai miei amici professori, a Mariastella Gelmini non andrà di lusso come sembrava sulle prime in tutte le (belle) interviste e copertine che la ragazza di Brescia s’è meritata. Voti, condotta, maestro unico. Tutte cose sacrosante. Per questo il comitato antifascista prepara grandi festeggiamenti. Già il 27 settembre la Cgil tornerà in piazza. Già i primi consigli dei professori scaldano i muscoli sognando di rivivere le barricate dei loro anni di giovinezza. Stanno preparando il film, la sceneggiatura è già scritta. Ma Mariastella non deve mollare. E sapete perché? Per il bene dei nostri figli. Volete che vi dica la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità?

Tenetevi forte. Negli anni ’70, a scuola, almeno scorreva sangue. Almeno giravano bastardi come il mio amico Marco Barbone (amico dall’81, prima mi avrebbe sparato, amico per incontro fortuito, amico dopo la galera, il pentimento, la conversione cristiana, la vergogna di aver sbagliato tutto, e assassinato una persona per bene, Walter Tobagi). Marco che aveva diciassette anni allora e portava la sua luccicante P38 a scuola (e non in una delle scuole professionali di borgata, ma al prestigioso, aristocratico, à la page, liceo classico Berchet di Milano). Marco che maneggiava la sua bella pistola e spaccava la testa ai suoi compagni di classe. Con i professori che gli dicevano: «Bravo!». E «non hai fatto i compiti in classe? Non hai un voto in tutto il quadrimestre? Tranquillo, copia quelli dei deficienti tuoi compagni ciellini, che a promuoverti poi ci pensiamo noi» (non ci credete? Fatevelo raccontare da chi stava in classe con lui, per esempio dall’ex figicciotto e poi ex segretario della Casa della Cultura di Milano, ora direttore relazioni esterne Fastweb, Sergio Scalpelli). Almeno allora scorreva sangue.

Tutti sapevano che la scuola di massa era una panzana, la democrazia tra le aule e nelle assemblee scolastiche un vecchio arnese che nemmeno il terzo celere riusciva a garantire. Ma nessuno si sarebbe mai sognato di fare finta di niente, piagnucolare, posturarsi a vittima di un ministro dell’istruzione. Certi prof sfigati di oggi sono come quei maestrini delle quaranta scuole romane che si sono messi a lutto, esibendo per la bella stampa da Truman Show le loro fascette nere per protestare contro Mariastella, che con i suoi provvedimenti avrebbe, pensate un po’, «distrutto il nostro sistema scolastico». Prima almeno, fino alla metà degli anni ’80, dopo il sangue ci fu un poco di riflusso, di mestizia, di vergogna a ripetere slogan falsi e assassini. Almeno per qualche anno di plastica, dopo quelli di piombo, non c’era quasi più nessuno in giro a credere che se uno come me, figlio di veri proletari, era stato iscritto alla prima sezione T (ripeto: T, diciotto prime classi!) e si era diplomato alla sezione quinta G (ripeto: G, da diciotto che erano, erano diventate otto!), tutto ciò era frutto della «selezione di classe». Altro che «no alla scuola di classe, no alla selezione, non diventeremo i servi del padrone».

Schiavi eravamo diventati, della droga, delle pistole, dell’alienazione demente che aveva abolito Dante e Manzoni (e la Coca Cola, poiché «ogni coca cola che berrai è una pallottola all’amerikano che darai, e se l’amerikano non fallisce è un compagno vietnamita che perisce») per sostituirla con i diari di Che Guevara e di padre Camillo Torres. Eravamo trentasei figli di proletari in quella prima T. Al diploma arrivammo in dieci. Gli altri? In galera o morti di eroina. Da allora ho imparato che tutto il resto sarebbe stato facile. Io me ne andai a studiare alla Cattolica. Ma per le generazioni successive, nei licei fu polvere e morte burocratica. Infatti, dopo qualche anno di plastica, dopo che il compagno Enrico Berlinguer e la sua musa scalfariana inchiavardata con i veri poterazzi della finanza (i piduitsi erano dei dilettanti al confronto dei compagni-azionisti-demitiani dell’epoca) diede l’ordine di ricominciare a orchestrare un po’ di casino, scuola e università ridivennero i grandi contenitori di carne fresca e fantaccini da buttare per strada all’ordine della catena di comando che partiva dal Pci (in combutta con certi cari reporter di grandi giornaloni). Così, a metà degli ’80, ricominciò il rito delle manifestazioni e delle occupazioni. Lo battezzarono «il movimento della pantera».

Roba da ridere, naturalmente. Niente a che vedere col sangue buono dei ’70, tutta roba preconfezionata e muffita (il mio vate di riferimento, Lodovico Festa, editorialista di questo giornale e all’epoca uomo di marmo del Pci, aveva già inventato la camicia di forza del Centro insegnanti democratici, giusto per mettere i più scalmanati e settari della famiglia comunista in condizione di non nuocere alla linea decisa dal partito a Roma). Insomma, dall’85 in avanti, fatta qualche eccezione per quando governarono loro, gli ottimati postcomunisti e prodiani, gli insegnanti «democratici» ricominciarono la contestazione da burletta e, all’uopo, a usare gli studenti (e il giornalismo collegato alla mamma «progressista» e «de sinistra») come massa di manovra in piazza. Non c’era niente da fare. La scuola doveva restare come le poste, un’impresa sbracata, un buco nero nei conti dello Stato, un posteggio e una caserma per le giovani generazioni. Cosa ci guadagnava la collettività? Niente. Ma quel milione di voti di prof e bidelli allocati con stipendio mediocre ma posto sicuro, dopolavoro di donne con mariti in carriera e sacco nero per gli emigranti dal sud con laurea, faceva gola a tutti. È andata così. E va avanti così.

Da vent’anni. I democristiani non si sono mai azzardati a muovere foglia che la Cgil non volesse e, intanto che si succedevano ministri e sottosegretari cattolici che fungevano da utili idioti, le sinistre Pci-Pds-Ds cementificavano l’istruzione e la chiudevano sotto doppia mandata. Da una parte di greppia per finanziare le migliaia di associazioni, ong, fasulli centri di aggiornamento per gli insegnanti, insomma l’industria per cui il sindacato oggi si ritrova un capitale di immobili e di finanze (non soggette all’articolo 18 e alla trasparenza dei bilanci). Dall’altra di formidabile fortino ideologico dove allevare come polli in batteria, nella trasmissione di saperi tarlati dalla menzogna (non è un caso che i Nobel come Solgenitsin ancora oggi non si leggano nelle scuole, per non parlare della letteratura che non ha il timbro antifascista) e, soprattutto, strumentali alla creazione del consenso nel famoso comparto pubblico (leggi: voti). L’insegnante tipo è quello che ha sotto il braccio Repubblica, ti ammorba coi romanzi del Pennac (adesso saranno i «saggi» dell’Odifreddi) e per punizione ti fa scrivere cento volte alla lavagna «viva i comitati antimafia». Con Mariastella, una outsider con le palle d’acciaio, la musica è cambiata. Ma ci potete scommettere, se la politica non avrà il coraggio di andare alla radice del marcio che c’è nella scuola, anche Thatcher Gelmini rischia di perdere il suo braccio di ferro con le Union dei secondini di quella galera sudamericana, dove tutti fanno apparentemente ciò che gli pare, ma sempre in una galera stanno, anche se le mafie interne garantiscono una certa giocosa, furba, assembleare routine, che è la scuola italiana.

Un esempio? Tanto per accontentare l’Umberto che ha detto che se non hai fatto l’insegnante è difficile che tu possa capire i problemi che ha la scuola, ne faccio uno, il mio. Prima di fare questo lavoro, il sottoscritto ha insegnato per un lustro nella scuola statale e per un altro mezzo in quella privata. Non ci sono confronti possibili. Nella scuola privata venuta su col sudore di una cooperativa di genitori assistiti da un paio di imprenditori illuminati tutto si svolgeva in un clima di avventura, autorevolezza, libertà piena. Non è che non ci fossero litigi e conflitti. Era che anche le difficoltà erano affrontate non con i timbri della burocrazia, le assemblee deficienti e i ricorsi sindacali. Ma con il buon senso e la parola data tra uomini liberi. Era il liceo don Gnocchi di Carate, che non a caso è passato da zero a seicento alunni in dieci anni (ma ne potrei citare decine di queste scuole e migliaia di famiglie che si tolgono il pane di bocca per pagare le rette, ma se lo Stato sindacalizzato dice che queste scuole non dovrebbero neanche esistere, che alternativa hai alla falsa scuola pubblica statale?).

Nel liceo statale, invece (che non citerò, per carità di patria, ma se qualcuno obbietta sono pronto a un confronto pubblico, dove e quando volete), o ti rassegni alla mafia «democratica», cioè a quella dozzina di kapò, maestri di sindacalese, burocrazia e sollevazione della scolaresca. O rischi l’esaurimento nervoso (io, no, ho avuto la fortuna di avere buoni attributi, il rispetto dei ragazzi, addirittura la stima del leader degli autonomi e quindi è toccato ad altri colleghi – ho saputo poi da quel mio amico studente autonomo – consolarsi con qualche orgetta con gli scolari e stare muto quando nei consigli dei prof davo loro dei cretini, merdacce, addetti al lavaggio dei cervelli). Perché ho fatto questo esempio, e concludo? Perché il voto in condotta, il ristabilimento del maestro unico (che soppianta l’idea che i bambini ne debbano avere tre o trentatré non per il bene della loro istruzione e crescita, ma per il bene dell’assistenzialismo e il potere del sindacato), l’introduzione di qualche minimo criterio meritocratico, un po’ di ordine e pulizia in quella discarica senza fondo che è il sistema pubblico dell’istruzione, era il minimo che ci si potesse attendere da un governo stravoluto e oggi ancora strasostenuto dai cittadini italiani. Visto che siamo messi peggio del Cile? Visto che siamo il fanalino di coda dell’Europa? E allora cosa dovremmo difendere, la scuola dei maestrini che giocano ancora al ’68, del bullismo, di YouTube, dello sballo? È un inizio. Un buon inizio, quello della ragazza con gli attributi del tondino bresciano. Ma attenzione, cara Mariastella, se non proverai a metterci mano davvero alla radice del declino scolastico italiano; se non considererai con attenzione riforme come quella proposta dal presidente della commissione Cultura, onorevole Valentina Aprea, riforme che prevedono la parità scolastica (che c’è anche nei migliori Stati africani) e la chiamata degli insegnanti (non solo per graduatoria statale, ma per libertà, merito, autonomia di chi dirige le scuole), non solo potresti uscire sconfitta dal braccio di ferro con le piazze che verranno. Ma rischierai anche tu, come quei tanti (la maggioranza) ex colleghi costretti a subire i diktat della Cgil, di prenderti un bell’esaurimento nervoso.