martedì 21 ottobre 2008

La riforma della scuola e l'emergenza educativa

l'occidentale.it

Sabato e domenica sono stato a Norcia. A volte il diavolo ci mette la coda, e questo è ancor più significativo se si pensa che gli Incontri di Norcia sono intestati a Cesare e a Dio. Avevamo previsto un anno fa di dedicare il convegno a educazione e libertà, relatori la Gelmini e Cesana. Capirete che la presenza del Ministro e la concomitanza con le manifestazioni, le proteste degli studenti e tutta la disinformazione che le ha accompagnate hanno trasformato quel tranquillo week end annuale in un appuntamento ad alta tensione. Sono tornato stremato domenica sera, ma penso di non venir meno allo spirito di questa rubrica se, per una volta, anziché un articolo vi propongo il testo della relazione che, dal mio punto di vista, spiega tutti i motivi per cui la Gelmini non deve essere lasciata sola.

Signor Ministro, cari amici,

grazie innanzi tutto per non aver voluto mancare l'appuntamento con gli Incontri di Norcia della Fondazione Magna Carta, quest'anno dedicato all'emergenza educativa.

Nell'introdurre l'argomento che oggi andremo a discutere mi sia consentito un breve cenno preliminare al significato politico delle elezioni del 13 e 14 aprile scorsi. Come si comprenderà meglio alla fine di quest’intervento, si tratta di una digressione solo apparentemente fuori tema: al di là delle legittime opinioni di ciascuno, infatti, è fuori di dubbio che con il risultato delle ultime consultazioni politiche gli elettori abbiamo inteso conferire un mandato chiaro ad un leader e ad uno schieramento per la formazione di un governo di legislatura; un mandato popolare che in termini di ampiezza e significato forse non ha precedenti nella storia della Repubblica. E questo mandato impone all'attuale maggioranza di compiere scelte altrettanto chiare e di assumersi le proprie responsabilità senza tentennamenti.

Non parlo a caso di responsabilità. Se infatti, da un lato, il consenso comporta la necessità di dare risposte adeguate, è evidente - e la storia recente del nostro Paese lo dimostra - che solo un governo sostenuto da una robusta e coesa forza parlamentare e da una così massiccia legittimazione popolare può mettere mano con speranza di successo ad alcune delle grandi emergenze nazionali.

Nei primi mesi di legislatura questa evidenza logica ha trovato un riscontro concreto in tante circostanze: la crisi della finanza internazionale, i rifiuti campani, l'Alitalia, la sicurezza, e si è manifestata anche attraverso il riproporsi prepotente del conflitto tra la politica e la magistratura che ha avvelenato gli ultimi quindici anni della vita politica italiana. Ma faremmo un torto alla ragione se negassimo che fra le emergenze da affrontare per restituire un futuro al nostro Paese, spicca proprio l'emergenza educativa.

Eccoci, dunque, all'oggetto del nostro incontro. Se dovessimo definire in sintesi il concetto di emergenza educativa, potremmo dire che essa consiste nel fatto che i paradigmi di comportamento, i valori correnti nella vita quotidiana, gli atteggiamenti diffusi verso la cosa pubblica e gli altri consociati si trovano sensibilmente al di sotto degli standard richiesti a una convivenza ordinata e solidale.

Nel senso comune si è radicata la percezione che tale emergenza scaturisca dalla situazione di crisi nella quale versa il nostro sistema scolastico. Una crisi di orientamenti, una crisi di contenuti, una crisi che riguarda finanche le strutture. Tutto ciò è senz'altro vero. Ma si tratta di una lettura riduttiva e assolutamente insufficiente a comprendere la reale portata del fenomeno con il quale oggi siamo chiamati a misurarci.

Da un punto di vista più complessivo, infatti, si deve prendere atto che, oltre al sistema scolastico, ad andare in crisi, talvolta fino a scomparire, sono state le varie "agenzie" educative che più o meno consapevolmente fino a pochi decenni fa contribuivano alla crescita e alla formazione del cittadino. Procedendo per macro-categorie dobbiamo citare innanzitutto la famiglia, cellula sociale oggetto di una progressiva disgregazione, minata dall'interno dalla diffusione delle varie forme di "famiglia aperta", dal numero sempre maggiore di figli monogenitoriali, e via di questo passo, e destabilizzata dall'esterno dalla reiterazione di iniziative politiche volte a mettere in dubbio surrettiziamente, con il pretesto della sistematizzazione dei diritti individuali, l'unicità della famiglia così come è concepita dalla Costituzione italiana e da secoli di civiltà occidentale.

Passando poi alle altre strutture d’aggregazione e socializzazione che assieme alla famiglia contribuivano all’educazione dei giovani, si possono citare a titolo d’esempio parrocchie e oratori, agenzie di aggregazione che negli ultimi decenni hanno visto la propria capacità attrattiva depotenziata a causa della progressiva secolarizzazione; così come ci si può riferire alle trasformazioni dell’universo sportivo, un tempo strumento di socializzazione e decompressione, oggi vissuto sempre più esclusivamente come esercizio intensivo e stressante in vista del successo e dell'affermazione sociale. Si può citare, infine, la politica per ammetere che, al di là delle forme patologiche di iper-politicizzazione, lo stare insieme per motivi politici ha avuto a suo modo un valore educativo. Mentre oggi una riflessione, e persino un'autocritica, s'impone.

Per tutte queste ragioni, sarebbe irrealistico e velleitario - e forse anche una ipocrita abdicazione da responsabilità più ampie - immaginare che la scuola possa supplire completamente a tale diffusa crisi educativa. E' bene dirlo con franchezza: una ristrutturazione, anche profonda, del sistema scolastico, non può essere considerata come l’unica leva per avviare a soluzione il problema. Ma certamente dev’essere il punto d’attacco, l’ambito da cui cominciare.

Cosa fare, dunque? Se dovessi fissare in una formula sintetica l’intervento che serve alla nostra scuola, direi che bisogna al più presto muoversi in una duplice prospettiva: definire un nuovo orizzonte culturale e, all’interno di queste coordinate, chiudere un ciclo storico per aprirne un altro.

La crisi del modello classico continentale di istruzione ci rimanda, addirittura, alla Francia del XIX secolo, dove il tentativo della Repubblica di mettere radici in grado di resistere ai terremoti che la febbre rivoluzionaria avrebbe reso periodici passa anche, e soprattutto, da una concezione integralista e totalizzante dell’educazione pubblica.

E’ per questo che sin dagli ultimi decenni del XIX secolo lo Stato pretende il monopolio dello stile, dei principi, dei metodi, dei contenuti e persino degli spazi dell’istruzione. Mentre l’architettura scolastica giunge a descrivere i suoi irrinunciabili stilemi quasi fossero dogmi scolpiti nelle pietre, si afferma l’icona del maestro laico, repubblicano e quindi di sinistra, modello di virtù pubblica e, al contempo, custode delle tavole sacre della cittadinanza con il compito di trasferirle di generazione in generazione.

Per questi motivi in Francia, da allora in poi, la questione scolastica ha incarnato l’idea stessa di laicità dello Statoe difendere il monopolio totale della scuola pubblica avrebbe significato difendere la Repubblica laica. Ancor prima le sue radici: frontiera lungo la quale si sarebbero provocate crisi di maggioranza e abbattuti governi. Almeno fino all’avvento della V Repubblica e anche dopo.

Nulla di così cruento è invece accaduto in Italia. Da noi la durezza di quello scontro che nella patria di Tocqueville hanno avvertito come ultimativo è rimasta sullo sfondo, edulcorata prima, in epoca liberale, dai tentativi di trovare pertugi attraverso i quali far passare l’integrazione delle masse cattoliche nello Stato; poi, in periodo fascista, dalle complesse dinamiche concordatarie e dalla sfida sotterranea tra Stato e Chiesa su quella generazione che il regime avrebbe voluto “integralmente fascista”; infine, in epoca repubblicana, è rimasta come impigliata negli stampi di un regime di separazione formale regolato da un partito unico dei cattolici fattosi braccio secolare della Chiesa.

In Italia, per tutto ciò, l’idolatria statalista nell’ambito della scuola non mai ha scalato i picchi dell’intolleranza e dell’illiberalità: la parità scolastica è rimasta, nel senso comune, un obbiettivo regressivo che, però, non ha mai determinato chiusura di istituti o divieti. Non di meno, finito il tempo degli ammortizzatori storici, si fa fatica - tanta fatica - a sbarazzarsi dei residui di quelle concezioni, più antiquate che antiche, che poggiano su un malinteso ideale di laicità. Si fa fatica a individuare in una libera e regolamentata competizione di metodi e contenuti - piuttosto che nel riproporsi di anacronistici monopoli -, la strada dalla quale potrà transitare nel XXI secolo un ideale di cittadinanza veramente inclusivo. E, in quest’orizzonte, si fa ancor più fatica ad accettare una idea dell’educazione che parta dalla persona, dalle sue inclinazioni e dalla loro valorizzazione, piuttosto che da un astratto ideale di “bene pubblico”.

E forse quest’assenza di classicità ci ha anche privato di un parametro alto che possa aiutarci a considerare tutta la nefandezza del’ultimo ciclo storico: quello inauguratosi col lungo Sessantotto italiano e con i suoi epigoni. Una stagione dura a morire, che nell'ambito dei sistemi relazionali che gravitano all'interno della scuola e attorno ad essa ha comportato - per quanto politicamente scorretta possa apparire questa espressione - un progressivo svotamento del principio di autorità: nel rapporto tra alunni e docenti, tra docenti e dirigenti scolastici, tra personale docente e personale non docente, tra l'istituzione scuola e la famiglia.

Lungo la stessa direttrice, propagandando un egualitarismo falso, illusorio e - consentitemi - deleterio, la generazione nutritasi dei cascami del Sessantotto ha eroso il principio della meritocrazia, ponendolo come bersaglio di una propaganda critica tanto falsa quanto rovinosa, rispetto alla quale molti dei problemi che affliggono il tessuto connettivo e il funzionamento della nostra società non possono essere considerati estranei. Questa deriva, da ultimo, sta provocando un nuovo classismo. Lo scadimento dell’offerta formativa, infatti, mette solo i più facoltosi nella possibilità di accedere a costose strutture d’eccellenza, spesso fuori dai confini della nazione.

Da un punto di vista contenutistico, l'eredità del Sessantotto ha poi di fatto determinato l'interruzione di una tradizione culturale che era sopravvissuta alle temperie della storia. Anzi attraverso esse si era rafforzata traendone nuova linfa. Al contempo, ha contribuito ad erigere quel totem che per noi storici potrebbe essere definito "ossessione della memoria", e che più in generale si sostanzia in quel moralismo "politicamente corretto" che nel tempo ha preso il posto di un più sano approccio critico all’apprendimento fondato su una reale conoscenza e su solide basi culturali.

E qui veniamo a un altro punto critico: chiunque abbia a che fare con degli studenti, anche di livello universitario, percecisce infatti il disarmante impoverimento culturale. Vi è, insomma, una profonda carenza di contenuti e di nozioni che non può che rinviare, da una parte, a un training scolastico che evidentemente fallisce in quelli che dovrebbero essere i suoi obiettivi fondamentali, dall'altra una deleteria pedagogizzazione degli insegnamenti, in virtù della quale è più importante la modalità dell’insegnamento che il suo contenuto.

Tutto ciò dà un’idea di quanta strada ci sia da percorrere. Senza contare che nell'affrontare le grandi questioni che attengono alla politica educativa non si potrà non tener conto di altri aspetti, più prosaici ma non per questo meno rilevanti, relativi alla difficoltà di governo di un universo complesso come quello scolastico, che conta al suo interno oltre un milione di dipendenti. Vale la pena di passarli rapidamente in rassegna.

Fra i "peccati originali" ereditati dagli anni Settanta vi è senz'altro la sindacalizzazione estrema dei ceti medi. L'affermazione, cioè, di una mentalità che tende a considerare la pubblica amministrazione - e la scuola in particolare - come un ammortizzatore sociale, come un serbatoio di posti di assegnare, e non come un servizio per il cittadino contribuente e una risorsa per il futuro del Paese. Il rapporto numerico tra il totale degli occupati e gli occupati sindacalizzati è in tal senso assai eloquente.

Passando dal generale al particolare, e calando questa situazione nel concreto del mondo scolastico, non è difficile constatare quali ripercussioni abbia avuto sul sistema la tendenza alla sindacalizzazione sfrenata. Lo spauracchio dell'accusa di "comportamento antisindacale" agitato a ogni pié sospinto nei confronti dei dirigenti scolastici ha determinato col tempo una vera e propria cogestione con i sindacati dell'organizzazione degli orari e dei servizi. Anche perché, amareggia doverlo constatare, è proprio in un settore delicato e strategico come quello che attiene all'educazione delle future generazioni, che a tutti dovrebbe richiedere un surplus di responsabilità, che sigle sindacali solitamente ragionevoli e sensibili alle esigenze del riformismo manifestano una intransigenza straordinaria. L'accoglienza riservata alle misure del Ministro Gelmini ne è una prova evidente.

Con la sindacalizzazione è arrivato anche il tramonto del principio di responsabilità. Il venir meno, cioè, della possibilità che a ciascuno venga chiesto di rispondere del proprio operato e del conseguimento o meno degli obiettivi prefissati.

Allo stesso tempo, il modesto livello retributivo riconosciuto alla classe docente - anche a causa delle assunzioni di massa - ha contribuito al progressivo logoramento della considerazione sociale del ruolo degli insegnanti. E, per di più, sotto il profilo della gratificazione non ha giovato neanche l'ipertrofica burocratizzazione della professione. Basti pensare alla moltiplicazione di riunioni, sigle, incarichi interni alla quale abbiamo assistito nelle nostre istituzioni scolastiche: non vi è dubbio che questa tendenza, assolutamente da invertire, abbia finito con lo snaturare e svilire la figura stessa del docente, incidendo negativamente anche sulla qualità dell'insegnamento.

Infine, va ricordato quanto sulla scuola italiana, nel solco del ciclo inauguratosi nel Sessantotto, abbiano gravano i trentacinque anni di capovolgimento progressivo del rapporto tra scuola e famiglia determinato dai decreti delegati del 1974, a causa dei quali la scuola è divenuta una controparte ostile con cui contrattare, e non una istituzione con la quale collaborare. Si è determinata così una deleteria contrattazione permanente finanche sul rendimento, nella quale i dirigenti scolastici, chiamati a dirimere gli eventuali contrasti tra insegnanti e genitori, prendono sempre, a prescindere, la parte di questi ultimi.

E' bene a questo punto esser chiari: invertire la rotta non sarà una passeggiata. Non sarà una passeggiata restituire alla figura dell'insegnante i connotati del maestro custode delle regole di una cittadinanza fondata sulla capacità di concepire un sapere critico. Nessuno dei mali endemici del "sistema scuola" potrà essere affrontato con speranza di successo se all'interno dello stesso mondo scolastico non maturerà la consapevolezza della necessità di un cambiamento. Sarà difficile, ad esempio, metter mano alle politiche del personale, adeguare i livelli retributivi e innalzare gli standard qualitativi finché, in virtù di un'applicazione perversa del principio di autonomia, pur di giustificare il mantenimento di organici sproporzionati gli istituti continueranno a cercare di attirare iscrizioni di massa attraverso una corsa al ribasso e l'indebolimento dell'offerta formativa. Mentre, sul fronte amministrativo, non si può sottacere l'abnorme potere di condizionamento maturato dalla burocrazia ministeriale, in gran parte politicamente orientata, e non c'è bisogno che specifichi da quale parte. Un potere di condizionamento che non di rado si è fatto potere di interdizione, e che ha costituito uno dei maggiori scogli sui quali molti tentativi di riforma sono rimasti incagliati.

A questo punto un interrogativo è d'obbligo: oltre che difficile, è anche impossibile redimere la scuola italiana?

Se il rapido excursus fin qui tracciato ha anche solo un minimo di fondamento, non è difficile comprendere perché tanto dure e accanite si mostrano le resistenze, interne ed esterne, nei confronti di un progetto riformista che argini la deriva e rivoluzioni il sistema fin dalle sue fondamenta.

Si tratta di resistenze ideologiche, dovute ai postumi, duri a morire, del lungo Sessantotto italiano che indebitamente strumentalizzano il modello classi co che, nei fatti, è tramontato da tempo immemore. Resistenze strutturali, dovute alla sindacalizzazione estrema del mondo scolastico e al fatto che nel settore educativo come altrove, o forse più che altrove, ci si dovrà confrontare con una sacca di precariato che le politiche scellerate degli ultimi decenni hanno irresponsabilmente alimentato. Si tratta, infine, di resistenze corporative: nessuna delle categorie, anche per colpa di una massiccia e durevole propaganda disinformativa in servizio permanente effettivo, rinuncerà alle proprie rendite di posizione finché non riusciremo a far comprendere a tutti, proprio a tutti, che in gioco c'è il futuro del nostro Paese.

Fin qui siamo al pessimismo dell'intelligenza. Ma voglio augurarmi che fra noi, oggi, trovi spazio anche l'ottimismo della volontà. La presenza del Ministro Gelmini mi sembra un ottimo auspicio in tal senso. Nel rinnovare la mia gratitudine a lei per quanto sta facendo e a tutti voi per la vostra presenza, dopo aver enumerato alcune fra le categorie che connotano l'emergenza educativa in Italia, vorrei concludere proprio con una nota di ottimismo.

Bisogna trovare il coraggio di provarci: anche se la conservazione, le resistenze al cambiamento per quanto non più in grado di affermare i vecchi modelli ci sembrano a volte sufficienti a impedire il tentativo di edificarne uno nuovo. Bisogna trovare consapevolezza che è proprio questo “blocco” ad aver trasformato il problema educativo una vera emergenza nazionale. E di fronte a questo scenario, porsi una domanda semplice: siamo di fronte ad un'occasione storica; abbiamo un mandato popolare ampio e inequivoco. Se non ora, quando?

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