martedì 20 gennaio 2009

Università: allargare i requisiti nei concorsi per la docenza

In questi giorni il CUN (Comitato Universitario Nazionale), ha rilasciato gli "Indicatori di attività scientifica e di ricerca" validi ai fini dell'ammissione alle fasce di docenza in termini di qualità e quantità. Ad una prima lettura tuttavia, questi indicatori appaiono largamente deficitari e tutt'altro che in linea con gli indirizzi che l'attuale Governo sta cercando di dare all'Università italiana: meritocrazia e promozione dei talenti in primis. Sebbene si dica che tali indicatori non sono automaticamente esclusivi nella scelta di un candidato, di fatto diventano determinanti. Infatti, prendendo in considerazione l'ambito delle scienze giuridiche, per ora si tiene conto solamente della quantità di materiale pubblicato su suolo italiano: 1 monografia e 8 articoli per la docenza da associato, 2 monografie e 10 articoli per la prima fascia, in entrambi i casi senza tenere conto delle pubblicazioni sulle riviste internazionali.

Si pone dunque un problema di metodo nella scelta di questi criteri: una "monografia tradizionale" richiede almeno 3 anni di studio (infatti, i Dottorati di Ricerca durano 3 anni), ma certamente preparare un articolo per una rivista internazionale richiede ugualmente un periodo lungo per acquisire le conoscenze necessarie. Includere soltanto riviste nazionali, prendendo per buone perfino le riviste di dipartimento (come dire: "me la suono e me la canto"), significa privilegiare quei giovani studiosi che decidono di seguire le orme dei loro maestri, dedicandosi al filone di ricerca nazionale e rimanendo dunque ancorati alla base, mentre si decide quasi a priori di non premiare quei giovani che hanno avuto le capacità di affacciarsi in ambito transnazionale. Perfino le monografie vengono non di rado pubblicate dalla stamperia d'Ateneo, di Facoltà o ancora di Dipartimento, con tutto ciò che ne consegue a livello di scambio di favori e di gestione tutt'altro che oculata dei fondi.

Dunque, ancora una volta sembra che il sistema universitario nazionale sia ingessato nel tentare di mantenere il controllo completo sulla carriera universitaria dei suoi membri, partendo dai concorsi per i dottorati di ricerca (assurdo che siano concorsualizzati perfino i posti senza borsa!) per arrivare all'accesso alla carriera accademica ed al suo percorso. Decidere a priori di non tenere in considerazione (invece di premiare) chi, giovane studioso, decide fin da subito di confrontarsi con il miglior dibattito internazionale, è lo specchio migliore di quanto ancora si debba fare per scardinare il sistema baronico universitario.

venerdì 2 gennaio 2009

2009: ripartire per una Università migliore

Certamente il 2008 è stato un anno molto difficile per l'istruzione terziaria italiana. Il cambio di Governo ha portato con sé anche un netto cambio di rotta: basta con le vecchie regole, basta con i finanziamenti a pioggia, basta con l'università dei poteri forti e delle baronie. Sarebbe sciocco non dire che il problema si poteva affrontare meglio e con una comunicazione più tempestiva, invece di approvare la legge di bilancio e poi lasciare che facesse il suo corso: lo scontro con le parti interessate è stato duro e frontale, anche se poi non ha prodotto niente altro che qualche ammaccatura. Quello che color signori non hanno voluto capire è un concetto molto semplice che cerco di riassumere in poche righe:

  • l'Università italiana non è eccellente, non produce risultati apprezzabili e come già disse il Governo Prodi nelle sue analisi può fare le stesse cose con il 10% in meno dei fondi statali

Non ci si può infatti sempre nascondere dietro i 2-3 poli di eccellenza del nostro Paese, perché i poli di eccellenza li troviamo anche in Cile. Di fronte alla legge di bilancio, l'oramai famosa 133, tutti hanno gridato allo scandalo denunciando il duo Gelmini-Tremonti come dei barbanera con le forbici che guardano all'Università soltanto come un sistema dal quale fare cassa. Ammesso e non concesso che sia vero, sempre meglio che guardare ad essa come un sistema di potere, nel quale piazzare amici, parenti e raccomandati di ogni genere.

Il libro del prof. Perotti, L'Università truccata, è il perfetto esempio della malagestione tutta italiota dell'Università nostrana: non di certo un libro governativo, ma un libro che presenta dati di fatto, inchieste della magistratura e le tante nuove idee che servirebbero a rilanciare questo stanco settore, che produce sempre più umanisti della comunicazione e sempre meno scienziati in un Paese che invece chiede a gran voce il contrario.

È vero, il 10% di tagli in 5 anni non sono bazzecole, ma non sono neanche una catastrofe se ci si saprà organizzare in tempo: inutile gridare alla mancanza di fondi quando a Messina con i soldi pubblici si tappezzano con arazzi e divani in pelle gli uffici, oppure a Siena si affittano gli attici in piazza del Campo per vedere il Palio; inutile gridare alla mancanza dei fondi per la ricerca se poi si finanziano attività sull'asino dell'Amiata, oppure si danno €500.000 per ricerche di filosofia, lasciando i ricercatori pisani che indagano sulle staminali con miseri €27.000. E cosa dire di un sistema che destina più del 90% dei propri fondi allo stipendio del personale? A questi parrucconi si dovrebbe dire: "prima utilizzate al meglio i soldi che abbiamo, poi parliamo di aumentare tali fondi". I paragoni con Paesi come Francia e Germania servono solo come specchietti per le allodole: noi spendiamo la metà perché abbiamo il doppio del debito pubblico. Per di più abbiamo un sistema di gestione peggiore e nettamente differente. Cosa dire di quelle Università dove si entra nei dipartimenti e si legge "figlio di", "moglie di", "parente di" per il 70% del personale? A cosa serve aumentare i fondi a questi dipartimenti se non ad assumere un nuovo genero?

Tagliare i fondi non risolverà la situazione, ma almeno impone ai rettori delle scelte: il Magnifico della Sapienza, Frati, ha deciso di tagliare lo stipendio a chi non fa ricerca, di diminuirlo a chi non pubblica, di bloccare gli scatti di anzianità a chi non si comporta con la dovuta deontologia professionale. Senza quei tagli questo non sarebbe avvenuto, e si sarebbe andati avanti come da 20 anni a questa parte. È anche disinformazione allo stato puro continuare a ripetere che i tagli sono a pioggia: con l'ultimo decreto il Ministro Gelmini ha posto dei paletti, ha destinato un cospicuo fondo da ripartire per "meriti", ha guardato con attenzione al mondo del precariato della ricerca creando delle vie preferenziali per l'assunzione di giovani ricercatori e più in generale per un ricambio generazionale all'interno di un mondo che da piramidale qual'era e quale dovrebbe essere si è trasformato in cilindrico, con sempre più professori e sempre meno ricercatori.

È finito il tempo delle vacche grasse in cui ognuno si abbevera alla fonte dello Stato, del finanziamento pubblico: lo statalismo è quel cancro che ha portato l'Italia nell'odierna situazione, dove i figli pagano oggi il benessere dei padri di ieri. Lo Stato taglia i fondi? Ma allora perché scappare anche da quelli privati? Il Sole 24 Ore ha pubblicato un dato OCSE che mostra come il finanziamento dell'industria privata in Italia sia calato dal 3,8% all'1,8% nel giro di 10 anni, mentre nel resto d'Europa si è mantenuto invariato sulla media del 5%, in Russia ed in Cina è addirittura aumentato, passando nel primo caso dal 25% al 30% e nel secondo caso superando la soglia del 35%.

Come non parlare infine delle nuove regole: i concorsi con l'estrazione dei docenti hanno dato una bella botta a quel sistema di favori e controfavori per la promozione di gente "fidata". Di pochi giorni fa è la notizia che la Guarda di Finanza, in una delle inchieste che coinvolgono l'ateneo di Bari, ha trovato un'agenda nella quale un professore scriveva per filo e per segno tutti i candidati da aiutare, con caratteristiche e favori da elargire. Anche questo è un segno di come si vuole cambiare l'università, di come si cerca di ripristinare quell'antico concetto del "merito" oggi abbandonato a favore dell'università dell'uguaglianza, un concetto caro ai comunisti che ha distrutto tale sistema relegandolo agli ultimi posti rispetto a quello dei Paesi nostri concorrenti.

E poi ancora tante nuove idee, proposte e disegni di legge (in parte già approvati) per rendere tale sistema più dinamico, con una maggiore edilizia studentesca e con una maggiore possibilità di mobilità sociale reale e non presunta come oggi.

Ecco forse davvero, con queste rinnovate premesse si può guardare al 2009 come l'anno per il rilancio dell'Università italiana. Auguriamocelo tutti.

Buon 2009!