martedì 4 novembre 2008

FFO: come ti butto via il denaro pubblico

Riprendo questo bel post via destralab.it

Qui da pagina 58 a pagina 66 del Libro verde sulla spesa pubblica del Ministero dell’Economia e delle Finanze, le pagine dedicate all’Università, che forse mostreranno più chiaramente (… forse) perché tanti tra professori e osservatori pensano che sia ineludibile intervenire sul problema in modo concreto e perché si definiscono pannicelli caldi le semplici affermazioni generali di principi.

Ci sono delle belle tabelline sulla distribuzione del FFO alle università italiane secondo le leggi e i decreti succedutisi negli anni, dove si evince chiaramente che le università meno virtuose vengono incredibilmente “premiate” e quelle virtuose incredibilmente “penalizzate” e dove si può “notare” anche cosa ha significato e a quali distorsioni ha portato il fatto che lo stato ha fino ad oggi finanziato gli atenei sulla base di un criterio di “spesa storica”.

Libro Bianco scritto e pubblicato, tra l’altro, poco prima dell’emanazione del Decreto criteri di ripartizione del Fondo di finanziamento ordinario (FFO) delle Università per l’anno 2007 da parte del Ministro Mussi, che ha portato unanimemente (ne accenna anche Ichino nel post precedente e Ainis oggi) a questi “sensibili” miglioramenti:

Due soli dati per chiarire le dimensioni: nel 2008 (decreto ministro Mussi) la quota percentuale di FFO assegnata sulla base dei “risultati dei processi formativi e dell’attività di ricerca scientifica” è stata 2.2%, e nel 2007 0.58%. Il criterio della spesa storica, attraverso cui sono stati sostanzialmente ripartiti i finanziamenti, è pessimo non solo perché non ha nulla a che vedere con il merito, comunque valutato, ma perché offre continua copertura a qualunque politica o a qualunque errore di gestione delle sedi.

Le Università che alla data di chiusura del 2006, secondo quanto si può leggere ancora nel Libro Bianco (vedere la Tabella 2.20), nonostante l’esistenza fin dal 1998 di un vincolo relativo alla quota massima del 90% delle spese fisse per il personale di ruolo sul FFO, peraltro attenuato con un metodo di calcolo meno stringente a partire dal 2004, lo avevano “tranquillamente” superato, erano:

Bari 95,8%, Cagliari 92,6%, Cassino 90,1%, Ferrara 90,0%, Firenze 99,4%, Genova 92,4, L’aquila 93,7%, Messina 91,0%, Napoli Federico II 96,0%, Seconda Università di Napoli 98,8%, L’Orientale di Napoli 96,7% Palermo 91,1%, Pavia 94,3%, Pisa 96,9%, Roma La Sapienza 94,6%, Siena 101,1% Trieste 95,7%, Udine 90,9%, Ca Foscari di Venezia 90,8%. Qua altri dati più recenti.

Nella tabella 2.21 si può controllare, invece, la ripartizione del FFO assegnato, che vede, per esempio, Messina con un FFO assegnato del 2,63%, un teorico da modello 2006 da assegnare del 1,68% e un conseguente sovradimensionamento del 36,2% e Milano, che era invece riuscita a stare sotto il 90% (89,1%) con un sottodimensionamento dei fondi assegnati del 9,2%.

Qua invece andarsi a controllare quali sono le Università che hanno bandito gli ultimi concorsi nonostante tutto questo. E forse potrebbe diventare difficile, per chiunque, non domandarsi, come si fa qui, ma con quali risorse e sulla base di quali piani di sviluppo sono stati deliberati dalle sedi questi bandi? E questa mole di bandi è compatibile nei singoli atenei con il pieno turn over dei docenti? E non trovare tanto strano, rispondere che se non lo è, le risorse liberate dalle cessazioni del prossimo futuro saranno impegnate per promozioni di carriera.

Mentre oggi Michele Ainis, Atenei in tilt senz’anima e senza soldi. Sprechi, gigantismo, inefficienza, lassismo etico: all’università serve una cura, dopo aver fatto un’impietosa analisi dell’esistente, e aver affermato:

Ma non dipende solo dal rubinetto della spesa. Anzi: la sua causa più profonda sta nella logica che pervade il sistema, dove il merito è diventato carta straccia, insieme al senso della legalità.

[...] D’altronde tutto il sistema di finanziamento pubblico verso gli atenei è ben poco orientato al merito, al sostegno dei comportamenti più virtuosi nella ricerca e nell’insegnamento.[...] Se la superficie dell’oceano è piatta, sui fondali nuotano invece pesci d’ogni razza. Durante gli Anni Ottanta del secolo passato in Italia venivano impartite oltre 10 mila discipline accademiche; nel frattempo questa cifra è quantomeno raddoppiata. D’altronde tutta l’università si è via via gonfiata come un panettone, dopo il 3+2 e le altre riforme varate dal 1997 in poi. C’erano allora 41 atenei; nel 2008 sono diventati 95, fra pubblici e privati. Ma se si contano anche le sedi distaccate (ce n’è una sotto ogni campanile, da Tempio Pausania con 5 studenti immatricolati a Petralia Sottana che ne ha 6), il totale fa 338. Da qui la proliferazione delle facoltà, sicché ne abbiamo aperte per esempio 14 di Veterinaria, più di quante ne sommino tutte insieme Francia, Germania, Austria, Belgio, Grecia e Danimarca. Da qui, e soprattutto, la moltiplicazione dei corsi di laurea: 5.517 nel 2007, quando erano 2.444 nel 2000. Fra le new entries, «Gestione delle imprese di pesca» (università del Molise), «Scienze della mediazione linguistica per traduttori dialoghisti cinetelevisivi» (Torino), «Scienze del fiore e del verde» (Pavia), «Scienza dell’allevamento, dell’igiene e del benessere del cane e del gatto» (Bari).

Insomma sprechi, gigantismo, inefficienza, parcellizzazione dei saperi (gli iperspecialisti che sanno tutto su niente, e perciò niente su tutto), lassismo etico, mortificazione delle competenze, sia sul versante dei docenti che su quello dei discenti: all’università serve una cura da cavallo.

Propone una cura con “sottrazione”, anzi con doppia sottrazione: in primo luogo, via il valore legale della laurea e in secondo luogo, via il valore legale della cattedra.

La prima [...] soluzione non particolarmente originale (ne parlava già, mezzo secolo addietro, Luigi Einaudi), ma rivoluzionaria nei suoi effetti potenziali. Perché porrebbe le università in competizione fra di loro (vale di più la laurea dell’ateneo migliore), e perché non c’è efficienza senza concorrenza.

La seconda [...] Perché in Italia sono bassi gli stipendi dei ricercatori, al primo gradino della scala; lo sono quelli degli studiosi più brillanti, che negli Usa – attraverso contratti individuali e fondi di start-up – talvolta superano un milione di dollari; ma sempre negli Usa il rapporto fra lo stipendio medio degli ordinari e degli assistenti è di 1,5 a 1, mentre qui lo stipendio di un ordinario a fine carriera pesa 4 volte e mezzo la busta paga dei neoricercatori. È il paradosso d’un sistema il quale – legando la retribuzione dei professori esclusivamente alla loro anzianità di servizio – non sa essere né egualitario né meritocratico, tanto da attirarsi la censura dell’Ocse (Rapporto Going for Growth, 2007); sicché c’è bisogno di rivoltarlo come un calzino usato.

E qui “ordinaria” cronaca siciliana, non di nera, ma accademica. Università di Messina: indagata la moglie del Rettore e Ateneo messinese nella bufera: il rettore a giudizio per abuso d’ufficio, 25 gli indagati. Ne fa un bel pezzo di “colore” oggi il solito Stella.

Troppo “qualunquista” chiedersi, qualche volta, dove stavano prima del 2008, i signori professori e i signori Rettori che oggi fanno le barricate e parlano di merito e cultura che si vogliono distruggere? Ma di cosa stiamo parlando?

p.s.: Ricordando, per non essere fraintesa, che questa non vuole essere assolutamente una generalizzazione e che ad oggi, un punto su cui i consigli di ateneo più responsabili e “virtuosi” (e ce ne sono ovviamente diversi) stanno facendo pressione è proprio quello di orientare in senso meritocratico la distribuzione dei tagli. E non solo.

update: Il corriere oggi (2 novembre) ha pubblicato questo: Università, i conti in rosso. Con due grafici che contengono dati aggiornati.

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