domenica 22 novembre 2009

Occupazioni a scuola, ci vuole più responsabilità

Il re è nudo. Ecco la riflessione venuta spontanea leggendo la presa di posizione dei presidi romani che hanno messo nero su bianco quello che tutti sapevano da anni e nessuno aveva il coraggio di dire: le occupazioni delle scuole secondarie sono una ritualità vuota, una esperienza diseducativa che si fa per stanca ripetizione di un passato che nessuno ricorda e per non perdere l’usucapione di uno spazio di vacanza aggiuntivo e fuori dalle regole. Per tanti versi questa scuola è lo specchio della società in cu viviamo: ripetitiva dei suoi riti e miti sociali, che però svuota di ogni significato. Si può essere o non essere d’accordo con quello che rappresentò la rivolta giovanile del Sessantotto, ma questi cascami non c’entrano nulla con quella esperienza. Allora era il fenomeno europeo (anzi: occidentale perché coinvolgeva anche gli Usa) di una società in cui i giovani erano maggioranza (la generazione dei babyboomers del dopoguerra, quando in Francia 1 su 3 aveva meno di vent’anni) e cominciavano a pretendere di essere attrezzati per il loro posto nella società opulenta del grande sviluppo; oggi i giovani sono minoranza in una società invecchiata che dubita dei suoi valori e del suo futuro, il fenomeno è solo italiano, e questi giovani più che pretendere un posto per il loro domani chiedono di non fare fatica oggi. Giustamente si invita a non generalizzare, ma è indubbio che non c’è spazio e forza per impedire queste cosiddette “proteste” i cui slogan sono vuoti e i cui obiettivi muoiono all’alba delle vacanze di Natale, per poi far riprendere il solito tran tran, con una scuola sempre più demotivata delle sue responsabilità educative. Chi non è d’accordo si assenta, come appunto avviene nella nostra società: tanto per fare diversamente bisognerebbe usare lo scontro fisico, perché l’abitudine alla discussione, al confronto civile, al misurarsi sulle idee e sulle proposte, e dunque a cedere alla legge della maggioranza, se ne è andata. Esattamente come avviene nella società degli adulti. Così siamo tristemente anche in questo caso nella società degli irresponsabili. Quello che avviene nelle “occupazioni” è extraterritoriale, perché ovviamente la responsabilità collettiva non esiste, e quella personale è coperta dalla omertà dei gruppi (salvo poi a correre a manifestare contro l’omertà che copre la mafia…). Si arriva anche a situazioni assai spiacevoli, con interventi dall’esterno delle scuole di professionisti di queste pseudoagitazioni, sempre con la copertura che trattandosi di esperienze “aperte” bisogna accogliere quelli che vengono a portare “contributi”… La risposta deve essere la repressione? Anche in questo caso è bene non passare da un estremo all’altro. Verrebbe da dire che tanto l’uso legittimo della forza pubblica non lo vuole più nessuno: susciterebbe ulteriori proteste, la società sarebbe pronta a stracciarsi le vesti e a fare causa comune con chi si è reso responsabile di illeciti. Le stesse autorità preferiscono lasciar correre nella consapevolezza che tanto tutto si spegne da solo dopo un po’, basta aspettare. Si arriva all’estremo che gli insegnanti di un istituto di Roma, il Morgagni, devono barricarsi dentro per difendere la loro scuola, con gli studenti che li attaccano dall’esterno per occuparla e le autorità stanno a guardare. Il problema è che comunque quel tipo di repressione che si è in grado di usare nei casi estremi serve a poco: è una sorta di spedizione punitiva delle forze di polizia che rompe qualche testa senza alcuna capacità educativa. Il tema da affrontare è invece quello della responsabilità e della responsabilizzazione. Si vuole protestare, fare la rivoluzione? Benissimo, ma, come in tutti questi fenomeni seri, si devono accettare dei costi. Gli operai che scioperano perdono il salario e non è per loro un danno irrilevante. Gli studenti che vogliono prendersi lo sfizio di occupare devono poi dover lavorare il doppio per recuperare il tempo che hanno perso, devono essere sottoposti al vaglio della verifica severa per vedere se si tratta di persone che hanno qualcosa da dire o di ragazzi che hanno solo voglia di fare un po’ goliardia, devono sapere che sono responsabili collettivamente di tutti gli eventuali danni che provocano, i quali non sono danni verso beni “dello Stato”, ma “della collettività”, cioè anche loro, perché dentro ci sono i soldi che le loro famiglie pagano con le tasse. E, diciamolo francamente, non è sempre solo un problema di educare i ragazzi, perché nella maggioranza dei casi bisogna iniziare dalle loro famiglie, che sono altrettanto irresponsabili, perché non vogliono la grana di figli alle prese con difficoltà, perché a volte hanno nostalgia di rivoluzioni di cartapesta che hanno sognato senza realizzarle, perché in fondo condividono l’idea che nel Nord Est si esprime nel famoso detto “roba del Comun, lè roba de nisun”. Qualche tempo fa i ragazzi gridavano “la crisi non la paghiamo noi”. È uno slogan emblematico dell’irresponsabilità, perché si fonda sull’illusione che si possa decidere chi paga e chi non paga una crisi come si decide se andare o non andare in discoteca. Non è così e se non vogliamo pagare (tutti, ma specialmente le generazioni più giovani) questa crisi di trasformazione a prezzi usurai dobbiamo ritrovare il coraggio di dire ai giovani che bisogna attrezzarsi a cambiare registro. E chi saprà dirlo loro in maniera convincente aggiungerà che questa sì che sarebbe una vera rivoluzione per la quale ci vuole un coraggio da leoni.

Fonte: Paolo Pombeni su ilmessaggero.it

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